Sembra appropriato cominciare con un post sullo strumento “serie televisiva”. O meglio, mi è utile, dato che mi permetterà subito di ricollegarmi (nel prossimo post) ad una serie specifica. Mi permetterà, più precisamente, di darle addosso. Altro aspetto positivo, infatti, dell'aprire un blog è quello di poter dar sfogo alla frustrazione causata dall'aver perso svariate ore della propria vita dietro un prodotto pessimo, dalla frustrazione causata dal fatto che quel prodotto pessimo rastrelli in realtà molti consensi e che quindi, quel prodotto pessimo, abbassi le pretese dello spettatore, settandole su livelli medio bassi e permettendo alle case produttrici e alle emittenti televisive di andare avanti col minimo sforzo. Discorso applicabile a vari altri contesti.
È bene, tuttavia, non scadere nella critica un tanto al chilo e sottolineare che fortunatamente vengono anche proposti, al contrario, prodotti particolarmente notevoli. Gli stessi che suggeriscono quali siano le reali potenzialità del linguaggio televisivo di cui si sta parlando. Basti pensare ad alcune delle serie ad oggi più riuscite e non a caso più conosciute, quali “Oz”, “I Soprano”, “Battlestar Galactica” - è vero anche che tra le più conosciute ve ne sono molte decisamente meno riuscite e viceversa, ma questo è dovuto alle storture di cui sopra - e “The Shield”. Quest'ultima è andata avanti per sette stagioni. Raccontare più personaggi per sette anni, implica un lavoro incalcolabile di analisi creativa, al fine di rendere l'evoluzione degli stessi, dello scenario e della storia di fondo credibili; al fine di incastrare nella maniera più lineare possibile personaggi e sottotrame senza che si avvertano corpi estranei all'interno della serie - vedi la puntata 14 della terza stagione di Lost, in cui compaiono i due deficienti nell'immagine in basso - e senza che venga messo a rischio l'isolamento, questa volta voluto, in cui il classico divoratore di serie televisive non può fare a meno di rifugiarsi. La sensazione cercata è la stessa provocata da un'immersione: distacco uditivo e visivo, quindi anche emozionale, dalla realtà circostante. La si ottiene già con una sola puntata, più puntate la rendono irrinunciabile.
Ciò che permette ad una serie televisiva di far proprio lo spettatore, e ciò che rende lo spettatore disponibile a farsi trascinare è, tra gli altri aspetti, il non doversi sforzare, già dopo aver visto il pilot, di entrare ogni volta in una storia, di sintonizzare le sue emozioni con quelle del protagonista, semplicemente perché quella storia, come il protagonista, già la conosce. Ogni puntata non è un partire emotivamente da zero, come accade con un film, che ogni volta deve avvicinarti prima di trascinarti, ma un ripartire, cosa che generalmente accade dopo appena qualche secondo o, come accade in molti casi, anche prima, durante la sigla – quella di “True Blood”, in questo senso, è inarrivabile. Ad onor del vero, forse non è neanche necessario cliccare il tasto “play” dato che l'attesa, è cosa nota, è in quest'ottica particolarmente funzionale. Quest'aspetto, unito alla continuità degli episodi – si sta infatti scrivendo di serie dalla trama orizzontale - risulta imprescindibile se si vuol comprendere il motivo per cui si resta anche per ore davanti allo schermo senza sforzo alcuno.
Strettamente correlato a quanto scritto è l'aspetto temporale di cui si accennava in precedenza: chi guarda sa che ha davanti a sé un percorso evolutivo esteso, che gli permetterà di vedere il capolinea al quale giungerà il singolo personaggio. È utile chiamare nuovamente in causa il paragone con il cinema. Se quest'ultimo – con le dovute, tante, eccezioni – mette in scena una storia che inizia e finisce mediamente in due ore, ma racconta comunque una parentesi temporale estesa, trasmette sì la sensazione del tempo ma non convince fino in fondo colui che si è seduto sulla poltrona appena due ore prima e che si trova ora “già” a doversi alzare ed abbandonare del tutto - tranne nel caso di sequel e prequel – i personaggi che ha imparato a conoscere in quel lasso di tempo. Una serie invece riesce dove una pellicola non può, perché appunto non solo descrive parentesi temporali estese ma copre di fatto un lasso temporale esteso. La sensazione finale è quella di aver seguito i protagonisti per una parte della loro vita assai considerevole e pertanto soddisfacente per lo spettatore.
Da considerare, inoltre, quanto l'aspetto temporale permetta da un punto di vista sceneggiaturistico. E non ci si riferisce alla mera possibilità di estendere lo sguardo su più ampie parentesi di vita dei personaggi raccontati, ma alla possibilità di concentrarsi senza troppi limiti di tempo su quei particolari che fanno un personaggio, vivisezionandolo e sviscerandone l'intimità, con tutte le sue sfaccettature, quell'intimità che lo rende comprensibile, degno di essere avvicinato e seguito, degno della propria immedesimazione, perché alla fine è a quella che lo spettatore implorante di essere portato da qualche altra parte anela. Immedesimazione. Empatia ed immedesimazione.
Le potenzialità di tale strumento, come già detto, sono enormi. Riuscire a gestire un prodotto simile, a tenerne le redini per tutta la sua durata si traduce quasi automaticamente in capolavoro. E non meramente televisivo, termine che potrebbe suonare riduttivo. Un capolavoro, punto.
Dexter dove lo collocheresti?
RispondiEliminaAdesso che ci hai pure te un bloggo tutto tuo, sarò il tuo incubo peggiore.
RispondiEliminaL' accenno ai due deficienti di Lost è da applausi a scena aperta, come del resto il parallelo che fai con il cinema. Io dico sempre che le serie televisive a cui ci si affeziona sul serio sono come dei lunghi matrimoni. Per quanto mi riguarda, gli unici due matrimoni riusciti in tutto e per tutto (nel senso che avrei preferito morire piuttosto che staccarmi un secondo dai personaggi) sono stati quelli con Six Feet Under e Battlestar Galactica. Game of Thrones è sulla buona strada, ma è ancora troppo breve per giudicare.
Col cinema è diverso, da un lato è più semplice creare qualcosa di memorabile, dall' altro la serialità è familiare e confortevole. Il cinema invece esige uno sforzo maggiore da parte di chi guarda.
Dopo averti riempito il blog di stronzate, ti saluto e spero di vedere un corposo articolo su BSG, prima o poi. Insomma, faccio le ordinazioni.
@Anonimo
RispondiEliminaDexter non mi hai mai fatto impazzire, personalmente. Interessante l'idea e non troppo raramente anche lo sviluppo, ma secondo me gli manca quella necessaria marcia in più per imporsi come prodotto valido al pari di quelli che dominano la scenario televisivo. Tanto che ancora non ho visto la quinta stagione e trovo difficoltà a trovare la voglia di farlo.
@ilgiornodeglizombi
RispondiEliminaGrazie per gli applausi a scena aperta, anche se basta offendere quei due, anche così di punto in bianco, magari durante una discussione sull'astrofisica, per rastrellare consensi a destra e a manca.
Per il resto sottoscrivo tutto, lo sai. Tranne forse per Six Feet Under, ma più che altro perché non è nelle mie corde, perché per il resto la serie è assolutamente riuscita. Peraltro ha un finale spettacolare.
Quanto a BSG, lo vorrei tanto fare ma avrei dovuto aprire questo blog tempo fa, mentre lo vedevo. Però forse lo faccio lo stesso ;)
E resta sul blog a commentare quanto vuoi.