mercoledì 30 novembre 2011

Recensione "The Turin Horse"

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THE TURIN HORSE (2011)




Regista: Béla Tarr

Attori: Volker Spengler, Erika Bok,
           János Derzsi, Mihály Kormos

Paese: Ungheria, Francia, Germania, Svizzera



Caustica e rassegnata la riflessione di Béla Tarr sull'uomo, a tratti venata d'odio perché rabbiosa nei confronti di un'umanità che ha portato se stessa al collasso morale. Un collasso totale e incontrovertibile. I suoi scenari sono desolati e deserti, fuori dal mondo e fuori dal tempo. Recinti per creature zombiane capaci di vivere solo all'ombra della propria meschinità; figlie di un'evoluzione sbagliata ma ormai registrata nel loro DNA. Geneticamente corrotta è infatti la bambina che tortura un gatto per molti dei 430 minuti di “Satantango”. Opera, quest'ultima, fuori dal comune, in cui lo sguardo del regista ungherese si fa anch'esso meschino. Delinea uomini avariati, così deboli da seguire un messia a caso, perché incapaci di scegliere da soli una direzione. Bestie da portare al pascolo, come quelle su cui si sofferma inizialmente la telecamera. Sette ore e mezza in cui sembrava aver detto tutto. Avrebbe potuto non girare più nulla e nessuno avrebbe proferito parola, nessuno avrebbe potuto. Cosa può aggiungersi ad un così immenso calvario emozionale, del resto, ad una visione così estrema e finale? Forse solo la reazione spietata e dolorosa di Béla Tarr, sanguinante e furiosa, calibrata e lucida. Quella di un uomo che non sopporta lo sfacelo al quale la specie a cui egli stesso appartiene l'ha condannato. La porta a termine in due pellicole che insieme a “Satantango” formano una trilogia ideale: “Le Armonie di Werckmeister” e “The Turin Horse”. Con la prima giudica una città intera, con la seconda l'umanità restante.


Nietzsche vide un cocchiere frustare ripetutamente e violentemente un cavallo che rifiutava di muoversi. Si gettò al collo dell'animale, in lacrime, non sopportando più la vista di quello spettacolo. Disse una frase: “Madre, sono uno stupido”. Cadde al suolo e collassò. L'ultimo episodio conosciuto della vita del filosofo diviene qui l'inizio della Fine. Nietzsche ne aveva sentito il respiro tra le frustate, l'aveva riconosciuta. Il cavallo ne respirava il marcio fetore ormai da tempo. Gli uomini invece non si accorsero di nulla.

I primi interminabili minuti sono per il cavallo. Tarr lo osserva nel suo lento e vano procedere, lo inquadra al punto di restituire quella che sembra rassegnata consapevolezza. Si trascina sulle note di “Horse” di Mihâly Vig che compone a sua volta l'inesorabile, donando al concetto una forma percepibile. Un corteo funebre che precede la morte. Lenta ed inesorabile è anche la telecamera, attraverso cui il regista ungherese si concede tutto il tempo necessario, come ha sempre fatto, per osservare con la calma di un carnefice la vita che prende consapevolezza della sua morte secondo dopo secondo.
Entra in casa ed osserva. In maniera morbosa ma nel contempo paziente. Non vuole perdersi un solo sguardo, un solo gesto di un cammino di cui però conosce la fine. Sembra voler osservare ogni singolo dettaglio di uno scenario architettato da tempo. Segue così la ridondate quotidianità di padre e figlia, seppur sempre con inquadrature diverse. La segue fino al punto di permettere di memorizzare i rumori e associare ad essi quanto accade fuori dal campo visivo, che sia il lasciarsi andare su una sedia o il soffiare su del cibo bollente. Per 90 minuti non accade nulla, se non l'avvicinarsi ai due protagonisti della Fine, che con un gelido bisbiglio suggerisce loro il suo arrivo: si accorgono che dopo 48 anni i tarli hanno smesso di farsi sentire. Come il cavallo ha smesso di camminare. A non fermasi è solo il vento; un vento incessante e impietoso di cui si avverte la presenza in ogni momento. Perché inquadrato, perché sentito, perché osservato dai protagonisti sulle note di “Horse”, che torna sistematicamente a scandire i ritmi come rintocchi funebri. 



La padronanza dello strumento filmico è incalcolabile. Dopo quei 90 minuti, un movimento del protagonista, uno sguardo diverso da quanto visto fino ad allora, una sola inquadratura è sufficiente a smuovere e a far vacillare chi osserva. È quell'agghiacciante “Ci siamo”. Chiunque da questo momento in poi avrebbe reso il ritmo più incalzante, Béla Tarr, al contrario, dopo la breve parentesi torna ad accomodarsi sugli stessi ritmi, torna ad osservare una routine che sfianca tutti, spettatori e protagonisti, tranne lui. Riscrive ogni volta le regola del cinema, non prima di averle infrante. Con i suoi tempi torna poi ad annullare le esistenze del cocchiere e della figlia, privandole dei loro sostegni. Il cavallo smette di mangiare e la già flebile speranza di poter lasciare quel luogo si assottiglia ulteriormente. Il pozzo si prosciuga di colpo e lo sconforto diviene terrore. Il vento inizia a soffiare più forte, a spazzare via tutto e il tentativo di lasciare l'abitazione, a piedi, si risolve nell'impossibilità di riuscirci. Lo sguardo del regista ungherese qui è devastante: li osserva dall'abitazione, in lontananza, brancolare nel nulla; per un attimo escono dal campo visivo ma la telecamera resta ferma, immobile, lì vicino all'abitazione, lì dove sa che saranno costretti a tornare. E così accade. Quello dell'uomo che si aggrappa ad una speranza resa vana dalla consapevolezza è da sempre un quadro sconfortante.
 

E al termine, l'apocalisse di Béla Tarr. Spietata, glaciale, silenziosa, terrificante. Il vento lascia il posto ad una calma raggelante, preludio ad un atto finale immenso. Un'apocalisse simile non si era mai vista. Così potente e disarmante, così immobile e inclemente. Non si era mai vista. La telecamera non ha intenzione alcuna di fare passi indietro. Insiste sulla speranza del cocchiere, vuole raccontarne l'ultimo barlume, vuole inquadrare l'istante in cui quel barlume si perderà nell'oscurità più nera. L'Oscurità. Ancestrale ed eterna. È il sesto giorno, Dio ha preso coscienza del suo errore e ne ha decretato la fine. Ha fallito, come quell'uomo creato a sua immagine e somiglianza.

Totale e definitivo.



È l'ultima opera di uno dei cineasti migliori mai esistiti e la sua filmografia non poteva concludersi in maniera migliore. È l'unico punto d'arrivo di una filosofia, la sua, che non poteva dirigersi altrove; un punto d'arrivo annunciato, come la fine di “The Turin Horse”. Questa volta davvero non potrebbe aggiungere più nulla, neanche un fotogramma. Dovrebbe sfondare la perfezione.


8 commenti:

  1. Film assoluto.
    Una commozione celebrale, bello da far piangere.
    Che il dio del cinema (speriamo che almeno lui esista) conservi il più a lungo possibile quest'uomo. E non importa se ha smesso di fare cinema, l'idea che lui continui a calpestare il suolo di questo sassolino azzurro mitiga un pochino il malessere verso questo mondo.

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  2. No vabbè, stavo entrando in questo istante nel tuo blog per commentare la recensione. Bela Tarr fa anche di queste cose ;)

    Comunque, non posso che sottoscrivere quel "una commozione cerebrale". Una cosa così definitiva ed inesorabile non l'avevo mai vista. Che non faccia altri film è molto triste, ma al tempo stesso, obiettivamente, cos'altro potrebbe fare dopo una cosa del genere?

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  3. Sembra magnifico. Io purtroppo devo ammettere di aver visto solo Satantango. Questo ovviamente mi attira, aspetto il momento giusto...

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  4. @moderatamente ottimista
    SOLO Satantango? E non so, cosa volevi vedere più? tutta la filmografia ungherese ;) ? Il solo fatto che tu abbia visto quelle 7 ore e mezza fa di te una persona degna di stima. Peraltro cronologicamente non ti sei bruciato nulla. Infatti adesso ti vedi Le Armonie di Werckmeister, successivo a Satantango, e dopo questo. E poi puoi anche lasciar perdere il cinema.

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  5. Sì, quel "solo" forse andava messo fra virgolette. :D
    Hmm, allora probabilmente seguirò il tuo consiglio, e prima di questo mi vedrò Werckmeister.

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  6. gatto, balena e cavallo ci interrogano

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  7. Questa mi era sfuggita, devo ammetterlo. Lieta che tu me l'abbia ricordata, ci troviamo in pratica su tutto! Anzi, se posso dirlo, tu sei stato molto più dettagliato, preciso nell'analisi. Ma il fatto che ti sia soffermato su alcune scene in particolare, le medesime che hanno colpito me, è l'ulteriore indice, oltre che di una felice affinità, della grandezza insita nell'opera di Tarr.
    "Sfondare la perfezione": esatto. Una forma più immensa di questa, un Cinema recente che riassume in sé la grandezza e l'evoluzione linguistica di un intero secolo...? Sconvolgente davvero.

    Ci rileggiamo presto, spero. :) - Frannie

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  8. Pienamente d'accordo. Alcune scene, del resto le uniche in cui davvero accade qualcosa, essendo chirurgico, Béla Tarr, anche nella scelta delle immagini che devono comunicare ciò che lui vuole comunicare. Infatti difficilmente i suoi film sono soggetti ad interpretazioni, benché i dialoghi siano centellinati e le sequenze riflessive, oltreché emotive. Un regista che cammina su altri livelli, è inutile.

    Si, a presto ;)

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