lunedì 21 novembre 2011

Recensione "Womb"

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WOMB (2010)




Regista: Benedek Fliegauf

Attori: Eva Green, Matt smith

Paese: Germania, Ungheria, Francia



Il cinema ungherese sembra voler affiancarsi a quelli che nell'ultimo periodo, in Europa, stanno proponendo pellicole particolarmente capaci di distinguersi. Quello danese post Dogma95, ormai da tempo alla ricerca di una propria identità, ha partorito, e continua a farlo, pellicole di indubbia qualità, riconoscibili e potenti. In Inghilterra si è imposta una sorta di new wave scarna ma assolutamente viscerale. Allo stesso modo l'Ungheria si sta distinguendo con un cinema, benché in embrione e quindi non prolifico quanto gli esempi appena citati, se non altro diverso. Ci si riferisce a Gyorgy Palfi e Benedek Fliegauf, per non citare Béla Tarr, uno dei cineasti migliori del nostro tempo. Se Palfi punta sul grottesco – vedi “Hukkle” e “Taxidermia”. L'ultimo lungometraggio appare decisamente meno riuscito - Fliegauf guarda all'estetica e ai tempi. Quest'ultimo prima di “Womb” ha girato “Tejùt – Milky Way”, in cui già delineava i tratti succitati del suo cinema. Tuttavia la spinta verso proposte sperimentali era evidente, forse troppo, tanto che "Tejùt", afono, appare davvero restìo a risultare fruibile: una successione di sequenze con telecamera fissa e apparentemente prive di collegamenti tra le stesse, se non generali e non così degni di nota. Fotografie in movimento che, però, mostrano una capacità tecnica ed un gusto estetico senza dubbio notevoli, tanto da domandarsi quale sarebbe il risultato della traduzione di questi suoi tratti in un cinema più convenzionale. A questa domanda Fliegauf risponde tre anni più tardi appunto con “Womb”.


Per questo suo primo lungometraggio in lingua inglese, Fliegauf opta per uno scenario che si confà in maniera particolare agli aspetti distintivi del suo cinema. É, infatti, in zone nordiche ricoperte di neve e calma serafica che si muovono i personaggi raccontati; zone in cui la presenza umana sembra centellinata, le case distanti l'una dall'altra, le spiagge immense e semi-deserte; zone così contemplative e lontane che appaiono quasi surreali. Il regista ungherese le fa sue dopo appena qualche inquadratura, fotografandole e valorizzandole alla perfezione. Si spinge oltre, poi, confinando il racconto in un'unica location: una baita in riva al mare, su una spiaggia del tutto deserta, interminabile, fotografata tanto divinamente da sembrare priva di confini. Qui l'estetica del cinema di Fliegauf raggiunge la sua massima capacità espressiva, siano le riprese esterne o interne. La regia lucida e calcolata valorizza la resa anche degli ambienti interni, infatti, che divengono funzionali ed imprescindibili per gli obiettivi della pellicola. I personaggi vivono in un guscio impermeabile alla realtà, quindi non costretti a rendere conto alla stessa di una situazione, la loro, che altrimenti verrebbe inevitabilmente a sgretolarsi. Una situazione la cui esistenza è subordinata a quel guscio e che in esso, però, sembra paradossalmente non repellere. O almeno non quanto dovrebbe.

Quella raccontata è una storia già di per sé malsana e difficile da accettare. Una giovane donna, Rebecca (Eva Green), legata ad una persona attesa per anni, l'unica a cui, sembra, abbia mai dedicato se stessa e il suo amore, Thomas (Matt Smith). Lo cerca e lo ritrova, rientra immediatamente in sintonia con lui. Thomas, dal canto suo, sembra aver percorso la stessa strada. Egli, tuttavia, morirà di lì a poco stracciando la favola e privando Rebecca di quella che si era ormai imposta come unica ragione della sua vita, al punto che deciderà di clonare Thomas, facendolo crescere nel suo stesso grembo.


La realtà della pellicola è quindi futuristica benché identica a quella attuale. Ricorda infatti “Never Let me Go”, pellicola assai notevole diretta da Romanek nel 2010. Se la distopia in cui è ambientata quest'ultima è definita e definitiva, tuttavia, quella di Fliegauf è embrionale. Appare come una potenziale tappa ultima alla quale potrebbe tendere una debolezza umana capace solo di guardarsi indietro. Sono pochi, non a caso, i cloni nella pellicola; solo un'altra c.d. “copia” oltre al protagonista. Sarà questo che porterà allo scenario isolato di cui si scriveva. La trama, quindi, contribuisce in maniera imprescindibile a quell'aspetto surreale che plasma il volto della pellicola fino a renderlo riconoscibile. Gli conferisce quell'identità necessaria perché un prodotto non risulti anonimo e non si perda di conseguenza nel mare delle pellicole proposte, al di là che al termine piaccia o meno.

Womb”, infatti, non può dirsi del tutto riuscito. L'empatia non è tale da spingere a sintonizzarsi con quanto accade fino a ritrovarsi immersi nella realtà raccontata. Non annoia, neanche per un momento, ma al tempo stesso non travolge. È una sensazione a cui è difficile dare spiegazioni oggettive; forse i dialoghi, forse alcune parentesi o forse, più semplicemente, è una storia non facile da rendere e Fliegauf è riuscito a farlo solo fino ad un certo punto. È difficile perché, invero, analizzando gli aspetti singolarmente non si avvertono particolari debolezze nella gestione degli stessi: funzionali regia e fotografia, musiche accennate e non invadenti, ritmi lenti gestiti con assoluta naturalezza (si veda la sequenza dell'incidente). Si mostra inoltre, il regista ungherese, notevolmente misurato e attento ai particolari, specie nella costruzione del rapporto morboso di una donna che cresce il figlio ora con l'affetto di una madre, ora con l'affetto di un'amante – il classico bacio sul capo diviene un bacio sul collo, lo stare affianco al proprio bambino sembra più un abbracciarsi al proprio uomo. Riesce a rendere in maniera forte una seppur solo suggerita repulsione verso ciò che si sta guardando, mischiando una delle cose più pure ad una delle cose più nauseanti.


L'unica debolezza oggettiva che trattiene, ma solo in parte, la pellicola potrebbe essere individuata nelle interpretazioni. Sono sufficientemente convincenti ma una prova ottima da parte degli attori avrebbe magari potuto rendere il tutto ancor più credibile (anche se va detto, ad onor del vero, che è chi scrive ad avere un serio problema con Eva Green). Resta, al netto delle considerazioni personali, una pellicola comunque valida che accende i riflettori su un autore e su un cinema di cui è bene, ancor prima che intellettualmente onesto, parlare.


2 commenti:

  1. Ne ho visti tanti di film scialbi, dal ritmo lento, apparentemente intimisti e perversi, e dove l'assenza di elementi esterni viene fatta passare per scelta artistica e coraggiosa mentre invece è povertà di idee.
    Ma questo li batte tutti.
    A suo modo è un capolavoro, è la merda definitiva.

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    Risposte
    1. Io non sono affatto così drastico nel giudicarlo. E non sono molto d'accordo con "la mancanza di elemtni esterni", riguardando la storia unicamente l'intimità dei due personaggi. Non avrebbe altrimenti avuto senso. I limiti, che anche io ho avvertito, li vedo in altri aspetti della pellicola, ma non sono affatto così scandalosi. Ed è quindi, la pellicola, ben lontana dall'essere una merda. Parere personale, chiaramente.

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