mercoledì 7 dicembre 2011

"Martha Marcy May Marlene"

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MARTHA MARCY MAY MARLENE (2011)





Regista: Sean Durkin

Attori: Elizabeth Olsen, John Hawkes, Sarah Paulson

Paese: USA


Vincitore del premio per la regia al Sundance 2011, quello di Durkin è un esordio che non passa di certo inosservato. Foss'anche solo per il tema scelto, nauseante e fumoso. A metà tra thriller e dramma si muove tra ricordi e dinamiche di quello che sembra uno dei classici culti (o sette) che saltuariamente ricordano al mondo la loro esistenza con idee particolarmente originali o con corpi da contare. Precede di appena un anno l'uscita della pellicola quella del corto “Mary Last Seen”, scritto e diretto dallo stesso Durkin. Racconta la parentesi che ha trascinato la protagonista all'interno del culto, introducendo quanto poi descritto in questo suo primo lungometraggio.

Martha (Elizabeth Olsen) è una ragazza in un evidente stato di disagio e incertezza, rincorsa da fantasmi che non è dato vedere. Fugge dalla sua famiglia e non dà sue notizie per oltre due anni, fino a quando sconvolta contatta sua sorella maggiore.
Marcy May è la ragazza che ha vissuto quei due anni al posto suo, la stessa che si è lasciata trasportare in una fattoria abitata dai seguaci di un uomo, Patrick (John Hawkes), ambiguo e per loro magnetico.


Sono le due personalità che accompagnano Martha per l'intera durata della pellicola. La destabilizzano, se la contendono fino a restituire un ritratto sfumato che non sa più a cosa credere, incapace di stare in piedi, incapace di riconoscersi. Distante da una realtà che fatica ad individuare. Il film non è altro che il racconto del limbo in cui si trova Marcy May. Durkin non dà troppe spiegazioni, lascia sospesa più di qualche domanda, ma questo non crea fastidi, perché quello di dare spiegazioni non è chiaramente tra gli intenti della pellicola; L'aspetto thriller, infatti, è accennato, per lo più suggerito. Durkin lo sfrutta solo per incuriosire, per trasmettere l'inquietudine della protagonista, però non fa reggere il racconto a misteri e colpi di scena; se ne allontana, al contrario, per avvicinarsi al dramma, quello dell'angosciante irrealtà che avvolge Marcy.
Nel raccontare il limbo inquadra anche quei ricordi che danno un volto alle cause che l'hanno generato: il montaggio sfuma ripetutamente, in maniera soffice e fluida, un presente immobile in quel passato che ha svuotato con confortante lentezza e spiazzate naturalezza la parte più intima di una personalità debole; così debole da lasciarsi, a sua volta, svuotare con assoluta facilità, scacciando dubbi e abbandonandosi ammaliata. Rastrellare personalità incerte e gattonanti è del resto il carburante di simili movimenti; accarezzarle, dir loro ciò che vogliono sentirsi dire, farle sentire parte di qualcosa ma facendo attenzione a non dar loro un briciolo di autonomia, continuando a coltivare un'incertezza fondamentale. A svolgere questo ruolo, nella pellicola, è Patrick, un piccolo uomo, particolarmente a suo agio nel muovere passi tra viscidume e debolezze altrui; affascinante, però, per le personalità di cui si scriveva. Penetra le ragazze vendendo poi loro quanto accaduto come un passo importante, per bocca delle altre a cui è stato riservato in precedenza lo stesso trattamento. Un bordello personale gestito da un pappone che si crede un letterato; uno gruppo di ladruncoli guidati da un uomo che gioca a fare il cantautore.


Al netto di svolte essenziali per il prosieguo della storia, i flashback sono puro fumo negli occhi. Le  parole di Patrick, quelle dei suoi seguaci, sono deboli, non dicono nulla. Non c'è alcuna riflessione interessante. È come riempire una scatola vuota con fogli di giornale. Persone svuotate e ammaliate con una canzone, riempite con concetti insignificanti ma ben formulati, con promesse semplici che tali resteranno, con una copia abbozzata ed inutilizzabile di un affetto perso o mai trovato. Qualsiasi cosa che permetta alle stesse di non affrontare un vuoto solo soffocato.
Durkin racconta il vuoto ma si preoccupa di restituire la percezione che di quel vuoto ha Martha. L'illusione di appartenere a qualcosa, di avere un ruolo. Il tutto immerso in uno scenario distante dalla realtà, sorretto da promesse false per chi guarda ma seducenti per chi non ha la forza di andare oltre, avvolto in una calma confortante e riscaldato dal tepore dei tempi dilatati. Il regista segue esattamente gli stessi ritmi. Si sofferma sui volti, sugli sguardi, su una luce particolare, su una canzone e descrive perfettamente quel limbo che sembra proteggere da tutto il resto, che a lungo andare diviene irrinunciabile, che a lungo andare crea dipendenza. Durkin, meglio, riesce a far vivere quel limbo, non cercando però di renderlo più seducente con dialoghi ricercati. Il vuoto resta infatti sempre lì sullo schermo, tanto che si rischia di scambiarlo per debolezze di sceneggiatura. In realtà è solo la rappresentazione di un nulla anestetizzante e distruttivo.


Se i flashback si occupano di inquadrare la faccia della medaglia capace di anestetizzare, il presente racconta invece l'altra faccia, quella appunto distruttiva. Il risultato di due anni vissuti con Patrick è un ritorno devastante alla realtà, questa volta non da una favola ma da quella che era tale solo in apparenza. Si è già scritto della personalità restituita: depressa e paranoica, un puzzle i cui pezzi non si incastrano perché appartenenti a confezioni diverse. Ne rende la forza una sorprendente Elizabeth Olsen (fino ad oggi a quanto pare i riflettori erano stati puntati sulle sorelle sbagliate) con una prova a dir poco superba. Tutte le paure, le incertezze, le ambiguità di un personaggio con cui non si può non empatizzare si leggono senza sforzi sul volto della giovane attrice.
Ad essa si contrappone un John Hawkes che potrebbe anche non recitare essendo credibile già solo esteticamente, ma che mette comunque a disposizione, è ovvio, un'interpretazione ottima.     

Chiude la pellicola un finale secco e coerente che sottolinea con una forza ancora maggiore la scelta di focalizzarsi sul ritratto e non sull'intreccio più prettamente filmico.
Martha Marcy May Marlen”. Bello e funzionale anche il titolo.


6 commenti:

  1. Ecco, questo ce l'ho nel radar da un bel po' e credo che sarà la mia prossima fissa.
    Ti ringrazio di averne parlato, perché volevo un' opinione di fiducia in proposito.

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  2. Figurati, anzi fammi sapere cosa ne pensi appena lo vedi, perché non è difficile che possa non piacere, a mio avviso.

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  3. Ok, appena finito di vedere. Shockante. Fai benissimo a sottolineare il grande lavoro di montaggio nell' equilibrare flashback e presente, e l' interpretazione della Olsen che è straordiaria. Sì, credo che ne scriverò
    Il finale è perfetto.

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    1. Eccoti, sono contento. Non pensavo invero ti sarebbe piaciuto così tanto, ma tant'è. La scena di Hawkes che canta la canzone a Marcy non è una cosa meravigliosa?

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    2. A me quella scena ha fatto paura, perché se senti il testo della canzone, ti accorgi di come non significhi assolutamente niente. E invece vedi la povera Marcy May ammaliata da quel grigio e squallido individuo. per me quello è horror puro.

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    3. Si, assolutamente si. Sono contento che poni l'accento su un vuoto, peraltro, raccontato per l'intera pellicola. È l'aspetto migliore della stessa, quello che lo rende così riuscito. Adesso non vedo l'ora di leggere ciò che scriverai al riguardo.

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