sabato 28 gennaio 2012

A.C.A.B. - All Cops Are Bastards


A.C.A.B. (2012)




Regia: Stefano Sollima

Attori: Perfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini,
           Domenico Diele

Paese: Italia


Quello di Sollima è un esordio che si inserisce per molti aspetti tra le classiche proposte del cinema italiano, quello meno riuscito perché legato a strutture che a quanto pare risulta davvero difficile demolire. Eppure dal regista sarebbe stato lecito aspettarsi tutt'altro, essendo l'ideatore di “Romanzo Criminale”, ossia l'unica serie televisiva italiana che può competere con il livello proposto all'estero. Pur essendo anch'essa per certi versi intrappolata nella melma passata di questo Paese, infatti, riesce comunque a rendersi a se stante, coinvolgente e soprattutto filmica, che a conti fatti è poi ciò che realmente manca al nostro cinema, o alla gran parte di esso.
Sollima, comunque, ci prova a non restare ancorato ad un cinema che non funziona e che sa ormai di stantìo, e lo fa già dalle prime sequenze. Come aveva fatto in “Romanzo Criminale”, si mostra subito incline ad un uso prepotente delle musiche; apre con dei titoli di testa sovrapposti a brevi parentesi montate in sequenza, che scandiscono a loro volta la preparazione dei “celerini” sulle note di “Seven Nation Army” dei White Stripes. Il risultato non dispiace, ma alcune debolezze sono già evidenti e il dubbio che vengano riproposte nel prosieguo della pellicola si insinua facilmente tra i timori dello spettatore; e li resterà, in attesa di conferme che puntualmente arriveranno. Di tali debolezze, tuttavia, si scriverà più dettagliatamente in seguito, rappresentando la principale discriminante della riuscita di “A.C.A.B.”.


Tornando per un attimo alla scelta musicale, Sollima sembra non disdegnare richiami al soggetto attraverso la stessa. I tre protagonisti, celerini, si distinguono immediatamente per il loro spiccato accento romano, e nel film ricorre più volte il loro servizio allo stadio, il loro scontro con le tifoserie. La canzone ha acquistato notorietà ulteriore proprio nel panorama calcistico italiano, e proprio quando la tifoseria romana lo utilizzò per la prima volta festeggiando la propria squadra. È una canzone, e in termini testuali e in termini prettamente emotivi, che suggerisce una spinta, una reazione capace di solleticare prima e provocare poi un'adrenalina priva per definizione di razionalità. La stessa di cui parla “Cobra” (Pierfrancesco Favino) quando viene ascoltato in tribunale, chiamato a difendersi dall'accusa di abuso di potere; la stessa che si rivelerà poi uno tasselli principali della struttura contenutistica della pellicola.

Oltre a "Cobra" la telecamera segue i suoi due amici, “Mazinga” (Marco Giallini) e "Negro" (Filippo Nigro), anch'essi alle prese con problemi di carattere più o meno personale; il primo con il figlio adolescente, il secondo con sua moglie e la sua bambina. Non sfugge ai problemi nemmeno il giovane Adriano (Domenico Diele), combattuto tra un passato da anti-poliziotto e un presente da neo-celerino. Sono questi i quattro volti con i quali Sollima decide di mettere in scena un film che potrebbe sembrare in apparenza privo di una tesi chiara ed individuabile; in apparenza perché non è così: lo sguardo del regista è ben più ampio, individua le colpe in uno stato d'animo legato all'individuo, non ad una esplicita fazione.


Nel ritrarre i protagonisti del suo primo lungometraggio, il regista delinea organismi vivi e pulsanti ma del tutto corrotti. Ad insinuarsi nelle loro debolezze sono stati gli istinti più bassi e proprio per questo più facili da seguire. Su di essi hanno costruito loro stessi, con essi hanno riempito un'identità prima evidentemente vuota*. È il riconoscersi nella violenza, e il non riconoscersi senza di essa. Sollima parla di gente che non sa fare altro, che non saprebbe quale altra strada percorrere se non quella adrenalinica e priva di riflessioni; gente che ha bisogno necessariamente di avere una fazione nella quale rispecchiarsi, che abbia regole ben precise che non bisogna far altro che rispettare senza porsi troppe domande - “È un fratello. Questo conta, e basta” -, soprattutto senza porsi troppe domande. Del resto in questi termini “A.C.A.B.” non è che una figura linguistica, una sineddoche, una manciata di volti per descrivere tutti gli altri: è il Paese intero che non vuole farsi domande, perché troppo impegnative; è il Paese intero che sceglie una fazione politica e la difende come un tifoso la sua squadra; è il Paese che sceglie il pacchetto completo di regole ideologiche alle quali adattarsi, scritte da gente con più voglia di usare i neuroni datigli in dotazione.
Svariate volte i tre amici si interrogano, più o meno esplicitamente, sul loro modo di agire, sul ciò che fanno, ognuno a suo modo, ma al termine si ritrovano sempre al punto di partenza, perché, si diceva, non sanno fare altro, non saprebbero come nutrire i loro dubbi e non saprebbero come concretizzare un cambiamento basato sugli stessi. Chiudono gli occhi e vanno avanti. E in questo senso, è bene sottolinearlo, il finale è assai potente.


Contenutisticamente, quindi, il film è solido, oltreché lucido nel portare avanti un discorso forte e difficile da non condividere. Il problema di “A.C.A.B.” è filmico. La struttura narrativa dello stesso è più documentaristica che cinematografica; invece di scavare ancor più a fondo, tirar fuori e far arrivare la parte più viscerale dei suoi quattro protagonisti, si limita a raccontarne l'evoluzione quasi unicamente, per l'appunto, narrativa. C'è una sequenza in particolare in cui quello che Sollima avrebbe in questo senso potuto fare e che non ha fatto diviene palese, ossia quella in cui Cobra e Adriano vanno dagli extra-comunitari che hanno occupato la casa destinata alla madre del giovane celerino. È estremamente cinematografica, e con poche battute e un paio di silenzi viene fuori con forza quell'umanità - da entrambi le parti, nonostante il tunisino non si veda neanche in faccia - che avrebbe dovuto essere la costante della pellicola. Ad avvicinare al documentario il tutto, inoltre, il toccare sistematicamente e cronologicamente tappe reali della violenza che ha segnato il volto del Paese (Raciti, Sandri, la Reggiani e il fantasma della Diaz); in tal modo la finzione filmica ne esce innegabilmente indebolita, tanto che l'accostamento da parte del regista del film a quello di Fuqua, “Training Day”, risulta al termine quanto meno tirato e poco calzante. I limiti di cui si scrive, peraltro, trovano conferma nel passato da documentarista di Sollima – che emerge da una regia in quest'ottica riconoscibile – e nello stile allo stesso modo ben poco cinematografico, per sua stessa ammissione, dell'omonimo libro da cui è tratta la pellicola.
Tale dicotomia risulta chiara anche dai numerosi tentativi del regista di guardare ad un cinema diverso, appunto meno italiano, attraverso le scelte musicali, tutte preponderanti, come la prima, nella costruzione della sequenza. Appaiono un po' troppo “modaiole” e si scontrano con una serietà reale e tangibile a cui non sono adatte, creando delle stonature che si avvertono distintamente.

Al termine, aiutata anche dall'interpretazione ottima di Favino, “A.C.A.B.” si risolve in una pellicola che merita senza dubbio la visione, benché sia interessante più come riflessione sulla violenza quale spirale e necessità, che come opera più strettamente artistica.

* SPOILER (Non è un caso che ai tre protagonisti ci si rivolga sempre e solo con i loro nomi di battaglia, e che l'unico che alla fine si distacca da loro fino a rifiutarli e denunciarli conservi il suo vero nome per tutta la pellicola)


13 commenti:

  1. Ne hai parlato meglio di quanto io mi aspettassi, quindi non posso che farlo avanzare di qualche posizione nella lista delle prossime visioni.

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    1. Nel senso che normalmente scrivo dimmerda ;)? No comunque, io i tentativi italiani di proporre uno stile diverso, anche se magari per molti altri aspetti restano ancorati proprio a quel cinema italiano classico, li apprezzo in ogni caso. Una cosa del tutto simile è successa anche con L'ultimo Terrestre, per certi versi assai interessante.

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    2. Direi che allora mi prodigherò in una visione, poi ti saprò dire.
      Carina quella sullo scrivere dimmerda. ;)

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    3. Allora aspetto di sapere che ne pensi ;)

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  2. a me è piaciuto moltissimo,l'ho trovato potente e anche a suo modo importante
    Penso anche che lo stile documentaristico di certe scene sia un bene,perchè ti fa vedere la realtà di un mestiere e di una nazione.Che è così.
    Non lo trovo nemmeno modaiolo come potrebbe essere ad esempio il cinema di Sorrentino.
    Mi ha trascinato invece nell'universo sporco e reale della società dei magnaccioni che siamo noi italiani.
    Insomma bravissimo Sollima e compagnia cantante

    Ne parlo più dettagliattamente sul mio blog,poi c'è da dire che sono solo uno spettatore e quindi mica faccio rivelazioni di un certo peso come potrebbe farle un critico o uno che lavora nel cinema

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    1. Quando parlo di stile documentaristico, non mi riferisco tanto all'aspetto tecnico, quanto proprio allo stile narrativo. È quello che secondo me frena il film. Che poi sia tale anche nello stile poco importa, anzi, potrebbe rivelarsi se ben sfruttato anche un punto a favore. Se opti però per uno stile simile, così realistico, non puoi metterci Pixies, Kasabian, White Straps e simili. Cozzano tantissimo, a mio modesto parere.

      Vengo di là, comunque, e leggo.

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  3. penso che cerchi di far convivere la parte documentaristica e quella di genere.Come facevano tempo fa Damiani-spesso mediocre- e Lizzani-spesso straordinario.

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  4. Finalmente riesco a leggere la tua recensione!!
    Che dire, mi ha incuriosita, quindi prossimamente credo farò come Mr. Ford e cercherò di recuperare il film, non fosse altro perché, almeno in parte, si distacca dallo schifo cinematografico italiota.

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    1. Ma infatti secondo me la visione la merita comunque, anche perché mostra seri tentativi di proporre altro. Il che, qui, è già un evento.

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  5. L'ho visto!
    Hai ragione sul voler calcare la mano a tutti i costi sulla cronologia degli avvenimenti della storia recente del paese. Cosa che c'era anche nel libro (ovviamente) e che quindi è derivata dall' opera di riferimento.
    Però l' ho apprezzato tantissimo, perché è finalmente un film crudo che non fa il santino del poliziotto, ma non lo rende neanche un mostro. Soprattutto i tre attori (e anche il ragazzino) sono bravissimi. Il finale poi mi ha ricordato 28 giorni dopo, o un' invasione di zombi a caso. Bello bello bello

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    1. Sui contenuti, su come affronta la figura del poliziotto, ma ancor di più, secondo me, sulla classica figura figlia della violenza che solo in essa sa riconoscersi da un certo punto in poi, sono infatti d'accordissimo con te. Il finale sottolinea questo poi in maniera sublime.

      Sulla restante parte, quella più filmica, purtroppo non mi ha del tutto convinto, però almeno non ci sono dubbi che per certi versi sia qualcosa di finalmente diverso.

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    2. Devo ancora vedere questo film ma, a occhio, mi pare molto debitore verso Tropa de elite. Sbaglio?

      Saluti

      Lars Bad Trier

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    3. Ciao Lars, benvenuto.

      Tropa purtroppo ancor non l'ho visto, quindi non so dirti se e quanto gli è debitore

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