THE DAY HE ARRIVES (2011)
(BOOK CHON BANG HYANG)
Regista: Sang-soo Hong
Attori: Jun-Sang Yu, Sang Jung Kim, Bo-kyung Kim
Paese: Corea del Sud
Dopo aver vinto appena un anno fa il primo premio nella sezione “Un Certain Regard” della più importante manifestazione cinematografica francese, il regista sudcoreano torna al Festival di Cannes con il suo ultimo lungometraggio. “The Day He Arrives” sembra non distaccarsi, almeno in termini tematici, dal precedente “Hahaha” ma non riesce come quest'ultimo ad imporsi. Racconta il ritorno a Seul di Sungjoon, regista alle prese con un blocco creativo. Racconta, nello specifico, i continui incontri che riempiono letteralmente la pellicola tra Sungjoon e i vari personaggi con cui si ritroverà a discutere della vita come di qualsiasi altro aspetto che in quel momento apparirà degno di essere approfondito.
Si è usato poc'anzi il termine “riempire”. Sang-soo Hong non ha intenzione alcuna di costruire una pellicola dall'impianto narrativo chiaro e definito. Non ha, anzi, alcuna intenzione di puntare sulla narrazione. Non vi è una storia individuabile, né si preoccupa di suggerirne anche solo lontanamente uno scheletro. L'unico strumento sceneggiaturistico di cui si serve il regista coreano sono i dialoghi. Affida loro l'intera pellicola tanto da non servirsi quasi mai neanche di silenzi attraverso cui lasciare seppur temporaneamente l'aspetto comunicativo a sguardi e gesti. L'unico strumento a supporto degli stessi è quello tecnico. La regia, non a caso, è l'aspetto di gran lunga migliore della pellicola. I lunghi piani-sequenza di Hong si soffermano in maniera insistente sui protagonisti, non allontanandosi mai troppo dagli stessi, perché di fatto rappresentano, insieme ai loro scambi, non solo l'unico elemento di interesse, ma ancor più semplicemente l'unico elemento presente. Si concede tutt'al più centellinati zoom su uno dei volti inquadrati, quello che sta in quel momento dettando i ritmi dello scambio, ma torna poi alla distanza iniziale e ci resta per svariati altri minuti. I tempi registici sono quindi lenti e Hong fa in modo di adagiarli su una fotografia in questo senso simbiotica, con quel suo essere al tempo stesso confortante e malinconica. Il B/N conferisce infatti ad ogni immagine un tepore innegabile, rendendo meno fredda anche la neve che più volte sorprende i protagonisti.
Il montaggio non lineare, allo stesso modo, punta solo ed unicamente sull'aspetto emozionale. Ad onor del vero essendo assente un impianto narrativo e, al netto della premessa iniziale, anche una storia, quasi non si potrebbe parlare di montaggio non cronologico. Ad essere irregolare e non fluida al punto che il tutto appare una serie di segmenti non comunicanti tra loro è infatti l'opera nel suo complesso. Non si scorge, al termine, alcun criterio attraverso cui ricostruire quanto visto, ma del resto l'obiettivo di Hong è in tutta probabilità esattamente questo. Ciò che a lui interessa raccontare e tramettere, è chiaro, è la dimensione sfocata e non lineare dei ricordi, delle emozioni, delle paure e delle incertezze. A tale scopo elimina tutto il resto e dedica ogni secondo del suo lungometraggio ai dialoghi e all'alternarsi di sequenze slegate da qualsiasi struttura. Unico punto di contatto i personaggi, che continuano a ripetersi confondendo ulteriormente uno spettatore che dal canto suo continua a cercare una chiave interpretativa che non c'è.
Per riuscire nell'intento, tuttavia, di delineare un volto senza criterio di un'intera pellicola, di svuotarla quasi del tutto di ogni elemento diegetico e di trascinarla in una dimensione emozionale tale da far passare tutto il resto non in secondo ma in terzo piano, avvolgendo completamente chi è dall'altra parte dello schermo, è necessaria una forza in questo senso ben maggiore rispetto a quella proposta dal regista coreano. Benché affascinati dalle immagini e dalle atmosfere, queste ultime non sono mai potenti al punto di annichilire la risposta razionale a vantaggio di quella più puramente emotiva, col risultato che nonostante la breve durata “The Day He Arrives” comincia a stancare relativamente presto. I dialoghi, a loro volta, non aiutano di certo. Sono l'unico strumento comunicativo, si scriveva, di cui si serve il regista, ma ciononostante il loro spessore è sensibilmente sottile. Non si rendono mai interessanti fino in fondo e la sensazione al termine è che Hong abbia cercato di dire tutto senza dire niente, ed infatti contenutisticamente della pellicola non resta nulla.
Quello di Hong, però, non è certo un lungometraggio che può essere archiviato con superficialità. Resta comunque espressione di un cinema ricercato e capace di distinguersi, solo non riesce conferire la forza necessaria alle emozioni che sfiora e che di riflesso sfiorano lo spettatore. Si avvertono, ma mai in maniera sufficiente.
Non ho mai visto niente di Hong. Questo ha comunque qualcosa che mi attira, ma non so, mi sa che per ora passo...
RispondiElimina"Hahaha" dovrebbe essere molto simile a questo per costruzione e impostazione, ma più riuscito. Se lo vedi, magari dimmi anche com'è ;)
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