TRUE BLOOD (2008)
Creatore: Alan Ball
Attori: Anna Paquin, Stephen Moyer, Alexander Skarsgård, Kristin Bauer
Paese: USA
Nel caso qualcuno ancora non se ne fosse
reso conto, è bene specificare che “True Blood” è senza dubbio
alcuno una delle migliori serie televisive in circolazione. E' vero,
non riesce nel corso delle varie stagioni a mantenere sempre degli
standard invidiabili (del resto a riuscirci è stato fino ad ora un
numero davvero esiguo di prodotti televisivi), ma è altrettanto vero
che con l'ultima stagione andata in onda, la quinta, Alan Ball
dimostra che la sua seconda creatura ancora riesce a scalpitare,
offrendo un intrattenimento assai difficile da trovare altrove. Sì,
perché quello offerto da “True Blood” non è affatto di facile
realizzazione come potrebbe sembrare: è quello totalmente privo di
fastidiose riflessioni sul senso della vita, privo di particolare
spessore, oltreché, come è giusto che sia in questi casi, di
un'accurata introspezione. In altri termini, è l'eccesso che non ha
bisogno di giustificare se stesso, il ritmo elevato che non ha
bisogno di essere preceduto da una struttura narrativa solida: è il
cervello spento, tanto amato in questo blog.
Non è di facile realizzazione, si scriveva. Sì, perché in assenza di spessore e ricercatezza il rischio di trasformare il tutto in un baraccone privo di fascino, grondante di cliché, banale e ben poco divertente è appena dietro l'angolo, e forse anche meno lontano. Si rende necessaria una certa maestria per tenere in piedi uno script simile e il creatore di “Six Feet Under”, ergo un uomo ben lungi dall'essere un incapace, a quanto pare ne ha da vendere. Punta sull'ironia e sull'autoironia, rende il prodotto cosciente della sua identità e gli permette di non prendersi mai troppo sul serio. Questo aspetto è assolutamente fondamentale, imprescindibile, senza il quale “True Blood” si sarebbe risolto in un prodotto fotocopia dei vari “Twilight” che infestano schermi cinematografici e televisivi. Ovvio, vi sono altri aspetti che differenziano i due tipi di prodotti, ma l'autoironia è, parere di scrive, la principale discriminate. E la quinta stagione sembra rendersene ulteriormente conto; è il motivo per cui la frase che Eric pronuncia in una delle prime puntate stampa sulle labbra dello spettatore un sorriso che non andrà via fino al termine della stagione: esce dal container nel quale aveva prima discusso e poi fatto sesso sfrenato con sua sorella, si abbottona i pantaloni e rivolgendosi a Bill con visibile autocompiacimento dice “We fight like siblings, but we fuck like champions”. In questa frase c'è più o meno tutto lo spirito di "True Blood", a metà tra ironia, per l'appunto, e fascino “da due lire”. Tutti i caratteri, non a caso, si distinguono con uscite dello stesso tipo, e in questa quinta stagione si pensa bene di aggiungere qualcosa come altri dieci personaggi, tutti quanto meno sopra le righe (i membri dell'Autorità). Inoltre c'è Russel Edginton, vecchia conoscenza, che illumina la scena come pochi; sarebbe sufficiente il suo volto che sbuca di fianco a quello della sposina intenta a cantare per il suo neo-marito a giustificare la messa in onda di questa ennesima stagione.
A non venir meno in questo quinto
appuntamento è chiaramente anche l'eccesso, che proprio grazie al
non prendersi sul serio di cui sopra può non preoccuparsi di porsi
limite alcuno, nei dialoghi come negli snodi narrativi. E' così che
la serie basata sui romanzi della Harris tira fuori un bimbetto di
svariate centinaia di anni che parla di massacri e guerre, un night
club gestito da fate, vampiri affetti da fanatismo religioso,
maledizioni, mostri di fumo (non quello di “Lost”,
fortunatamente) e via discorrendo. Tutti eccessi che se non gestiti
con la stessa accortezza avrebbero portato alla noia nel giro di
qualche puntata, ma che invece in “True Blood” coinvolgono al
punto di divorare puntata dopo puntata in attesa di quello che già
si sa essere un finale ancora più eccessivo di quanto visto fino ad
allora. Puntualmente, infatti, il finale si rivelerà tale, forse
anche più di quanto ci si aspettasse.
E poi di colpo la quinta stagione
riesce anche ad emozionare. Peraltro grazie a due dei personaggi più
idioti dell'intera serie. La scena Di Hoyt e Jason con Jess, nel bar,
è insospettabilmente potente e conferisce una serietà al tutto che
chiaramente svanirà in men che non si dica, ma che restituisce
comunque una ulteriore piacevole sensazione, seppur del tutto
distante dall'animo cazzeggione del prodotto. Scena, oltretutto,
nella quale vengono fuori doti attoriali di tutto rispetto, che
invero, forse proprio per l'assenza di scene particolarmente
profonde, non viene mai fuori con tale forza. Tranne nel caso, è
doveroso sottolinearlo, di attori come Denis O'Hare, magnificamente
sopra le righe nell'interpretare Russel Edginton: quel suo “I'd
love to come to dinner” contornato dall'espressione riportata
nell'immagine che segue fa bene all'anima.
Oltre all'anima a trarre giovamento
da questi altri 12 episodi è ovviamente anche l'organo cerebrale,
che può riposarsi abbandonandosi all'oblio e godendo di una
leggerezza che riuscirebbe ad anestetizzare anche i neuroni del più
accanito pensatore. Neuroni che si risveglierebbero, peraltro, solo
per contare i giorni che li separano dai prossimi 12 episodi, grazie
al finale di cui si scriveva, capace in tre secondi di spalancare le
porte ad uno script potenzialmente tanto trash quanto adrenalinico.
(questo purtroppo non è un ritorno, ma non potevo non scrivere due parole su questa stagione)
(questo purtroppo non è un ritorno, ma non potevo non scrivere due parole su questa stagione)