TAKE SHELTER (2011)
Regista: Jeff Nichols
Attori: Michael Shannon, Jessica Chastain, Shea Whigham
Paese: USA
Chi non conosce Jeff Nichols, come chi scrive prima di vedere “Take Shelter”, verrà da questa pellicola inevitabilmente spiazzato, foss'anche stato messo in guardia in precedenza. Non si sta affermando senza se e senza ma che il secondo lungometraggio del regista statunitense possa dirsi a tutti gli effetti riuscito. Si potrà al termine anche non apprezzarlo ma di sicuro si resterà per un paio d'ore davanti allo schermo ad interrogarsi disorientati su quanto si sta guardando. Non che Nichols metta in scena una regia che fa della ricercatezza sperimentale una regola, o un montaggio che delinea una struttura filmica atipica, né un intreccio surreale e fuori di testa; destabilizza nella maniera più pacata possibile, ti prende per mano, ti costringe a guardarlo, ti accompagna in un luogo claustrofobico in cui l'ossigeno sembra avere un peso maggiore e un sapore poco piacevole e ti lascia lì, da solo, a fare i conti con qualcosa che resterà indefinito.
L'intreccio, si scriveva, è lineare al punto che quasi si fa fatica a definirlo tale. Ha come protagonista Curtis (Michael Shannon), gran lavoratore, padre premuroso per la sua bambina sordo-muta e marito di una donna, Samantha (Jessica Chastain) che sembra a sua volta perfetta nel dare amore a lui e alla sua bambina. Una famiglia modello, la cui serenità farebbe impallidire il concetto stesso. Da un giorno all'altro Curtis comincia a fare sogni, che sono in realtà incubi, così realistici da farlo svegliare in preda al panico e provocargli reazioni psico-somatiche che non riesce a spiegarsi. E alle quali non riesce a porre fine.
I presupposti sono quelli del thriller, gli sviluppi invece quelli di un film drammatico. È il classico non-thriller che punta a riproporre la struttura del primo attraverso i codici strutturali del secondo, e già riuscire in questo non è affatto semplice (ricorda, limitatamente a questo aspetto, “Il Ritorno”, pellicola russa del 2003). I tempi si mostrano lenti e introspettivi, però non dilatati; puntano a ricostruire un assoluto realismo, lasciando al resto il compito di permeare la pellicola con sensazioni che si insinuano sequenza dopo sequenza nella percezione dello spettatore, fino a trascinarlo in una dimensione che oltre al guscio di realistico ha invero ben poco.
Tra gli elementi attraverso cui Nichols ricostruisce la dimensione di cui si scrive, assume un'importanza primaria il sonoro. Impone immediatamente la sua presenza, ma senza risultare mai di qui in avanti invadente. A volte in crescendo, altre volte sullo sfondo contrasta il realismo della pellicola alimentando una finzione filmica che, proprio perché antitetica al volto più palese del film, disorienta con apparente semplicità. È però durante le parentesi oniriche che il suo ruolo nella costruzione diviene di primissimo piano: i suoni crescono d'intensità, riempiono la scena, fin quasi a coprire tutto il resto, e travolgono con un'inquietudine che al termine resta addosso allo spettatore nello stesso modo in cui resta addosso al protagonista. La gestione di tali parentesi è in realtà eccellente da qualsiasi punto di vista la si guardi. Dalle scelte di sceneggiatura – elementi semplici ma sfruttati e valorizzati alla perfezione – a quelle di fotografia. Quest'ultima, chiaramente, risulta a sua volta imprescindibile, perché tale è nel momento in cui si cerca di ricreare periodi narrativi che allontanino il racconto dalla realtà. Ben più interessante è invece l'uso della stessa al di fuori di tali parentesi; dipinge le inquadrature rivolte a quel cielo che Curtis vede sempre più minaccioso, rendendo particolarmente luminosi i colori, pur senza rischiare il posticcio caricandoli troppo.
Inquieta ovviamente anche l'aspetto narrativo. Per l'intera durata si osserva la discesa inesorabile e angosciante del protagonista verso una condizione che ha conosciuto da vicino e le cui conseguenze ancora influenzano parte del suo carattere. È inquietante, nello specifico, il contrasto netto tra la consapevolezza di Curtis e la sua impotenza, tra il sapere che il luogo in cui sta andando lo distruggerà e l'incapacità di fermarsi. Nichols lo rende in una maniera tale che definirla perfetta non sarebbe sufficiente. Non lo fa, però, ricercando soluzioni spettacolari; al contrario, lo rende normale. È questo il profilo migliore della pellicola: racconta un disturbo reale in maniera reale, lo avvicina all'universo delle cose possibili perché di quell'universo fa effettivamente parte; non è più un semplice passaggio di sceneggiatura, è un rischio concreto. E questa percezione è disarmante.
A renderla ulteriormente tale un Michael Shannon che a quanto pare, si veda “Boardwalk Empire”, è nato per interpretare personaggi simili. È enorme, è credibile e ha un'intensità vocale invidiabile: non poteva dare spessore maggiore al personaggio. Ad affiancarlo la Chastain, che decide di non voler sfigurare neanche lontanamente e che infatti mette a disposizione a sua volta un'ottima prova.
(si sconsiglia di continuare a leggere se non si è visto il film)
Quella di Nichols, quindi, è una gestione assai notevole che delinea uno stile efficace e personale; uno stile che, tuttavia, solo al termine si mostra in tutta la sua forza liberandosi di qualsivoglia restrizione. Nelle ultime sequenze, infatti, sonoro e musiche tornano a dettare i tempi, delineano l'ascesa al climax e rendono agghiacciante l'arrivo di un'apocalisse annunciata. Che sia la tappa ultima della schizofrenia crescente di Curtis, che sia realmente l'avvicinarsi della catastrofica tempesta da lui temuta, che sia una metafora del tracollo economico all'orizzonte, poco importa, perché il risultato resta identico: devastante.*
Take shelter.
*Non ci si soffermerà su quale delle tre interpretazioni sia la più papabile. Nichols si preoccupa di lasciare aperto il finale distribuendo elementi che giustifichino ognuna di esse. Una piccola nota, però: in una delle sequenze conclusive si distingue chiaramente il sonoro del vento usato da Béla Tarr in “The Turin Horse”, anch'esso dal finale apocalittico. Probabilmente una sovraintepretazione, una coincidenza o un riferimento inesistente, ma nel caso contrario il finale non sarebbe più così aperto.