martedì 15 aprile 2014

True Detective Addiction #1


Con affetto.

(Però i pupazzetti li ho presi in prestito da Cyanide and Happiness)




domenica 13 aprile 2014

The Grand Budapest Hotel


THE GRAND BUDAPEST HOTEL (2014)




Regia: Wes Anderson

Attori:  Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Willem Dafoe, Tilda Swinton, Edward Norton, Bill Murray, Jude Law, Adrien Brody

Paese: USA



Wes Anderson e le sue storie fuori dal tempo. Storie, invero, che si ritagliano una porzione di realtà come la conosciamo e se la portano a spasso per i loro mondi, vestendola e truccandola a loro piacimento, conferendole al termine quell'aspetto lontano e surreale che è poi il minimo comune multiplo del suo cinema.
"Gran Budapest Hotel" è in questo senso forse ancor più distante, perché si allontana anche in termini prettamente temporali. Narra vicende che hanno inizio negli anni '30, in una Repubblica di fantasia nell'estremo est europeo, dal fascino proprio della fiaba, con tanto di voce narrante ad introdurre e portare avanti il racconto, che sa come inserirsi in maniera sapiente tra un dialogo e l'altro degli innumerevoli personaggi che si alternano, sfilando, sullo schermo. I connotati sono quindi fin da subito fantastici e con essi Anderson mette in chiaro senza mezzi termini che, come al solito, se non si è disposti a farsi trasportare in quella dimensione "fanciullesca" nella quale col tempo diviene sempre più difficile accedere sarebbe bene lasciar perdere la visione e cambiare sala finché si è in tempo.


In realtà gli stilemi della fiaba non sono sempre e solo per bambini, ma di certo la dimensione usata necessita di una certa predisposizione. Anderson infatti, pur raccontando zone e personaggi fittizi, fa comunque espliciti riferimenti alla guerra del periodo e agli squadroni nazisti, cercando però di stemperare, quasi di esorcizzare un periodo nero. Personalmente non ci ho nemmeno visto una qual sorta di satira ma, per l'appunto, semplicemetne il ritratto di un'epoca decaduta dipinta nel suo momento migliore e nella sua conseguente discesa. E non a caso, raccontare i fasti di un'epoca, o di un luogo è già di per sé strumento assai utile a trasportare in dimensioni "d'altri tempi". Anderson poi, quelle dimensioni, è bravo di suo a ricerarle, quindi son davvero poche le sequenze che servono a "Grand Budapest Hotel" per convincere lo spettatore a lasciarsi andare.
Lo stile usato ricorda fin da subito il cinema tipico degli anni in cui è ambientato il racconto, o per la precisione della decade precedente. Un cinema muto richiamato attraverso più di qualche elemento. A partire dal volto registico che si rende immediatamente riconoscibile e che vive simbioticamente con un montaggio veloce e capace di dare alla narrazione il giusto ritmo, un ritmo capace di sottolineare e valorizzare il tono caricato e caricaturale che sceneggiatura e aspetto estetico, con i suoi colori pastello e i suoi sfondi finti in cui immerge luoghi e personaggi, conferiscono al tutto.
Ciò non significa, tuttavia, che quello del regista sia uno stile più estetico che tecnico. Al contrario, Anderson resta fedele ad un rigore che non abbandona nemmeno per un fotogramma. L'eleganza con cui si muove negli spazi del suo Grand Budapest, nelle celle del suo carcere di massima sicurezza, nella piccola stanza della giovane promessa sposa di Zero, sui tetti e più in generale tra le sue perfette geometrie, è senza dubbio incantevole. Non restarne affascinati risulta al termine impresa assai ardua.

E laddove non dovesse arrivare lo stile di cui si scrive, ci sarebbe la massicia presenza di facce note (scelta intelligente) e tutte estremamente azzeccate a convincere in maniera definitiva. Una carrellata di attori di prim'ordine (Edward Norton, la sempre superba Tilda Swinton, Bill Murray, un meraviglioso Harvey Keitel, un cattivo quanto mai fiabesco Willem Dafoe e altri) si alternano sullo schermo e affiancano con parentesi sempre brevi Ralph Fiennes nei panni un protagonista che fa suo in tempo zero, non perdendo un colpo che sia uno.


Funziona tutto, quindi, in quest'ultimo lavoro di Wes Anderson. Il racconto scorre via con leggerezza e gusto, addomentando la razionalità e ingraziandosi gli occhi dello spettatore, che godono di uno spettacolo visivo innegabilmente piacevole. Ciononostante, così come per le altre pellicole del regista, o almeno quelle viste, in un punto imprecisato della narrazione subentra una certa stanchezza. Non che qualcosa venga meno, intendiamoci, semmai il contrario. Tuttavia forse il problema è che non si va mai oltre. Dietro la leggerezza di Wes Anderson, le sue geometrie e la sua ricercatezza, i suoi incanti, non c'è poi molto. Ovvio, in parte, che sia così, considerato lo spirito di una pellicola simile, ma è vero anche forse che c'è davvero troppo poco, alla fine dei conti. Se da un lato si crea una certa empatia fiabesca dall'altra non si crea tutta questa empatia per il racconto in sé, verso cui, come si scriveva, ad un certo punto si avverte via via un interesse sempre minore. Certo non si fa fatica ad arrivare alla fine, ma al termine della visione si ha quella sensazione di aver visto un film carino ma nulla più. L'incanto sarebbe potuto essere più avvolgente, il racconto più interessante, o reso più interessante, il coinvolgimento ben maggiore, ma tutto ciò non avviene, e il retrogusto di un film potenzialmente meraviglioso (nel senso proprio del termine) ma nei fatti non più che gradevole, resta.



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