mercoledì 7 novembre 2012

Restituiamo agli zombie il loro ruolo


THE WALKING DEAD (2010)





Creatore: Frank Darabont

Attori: Andrew Lincoln, Jon Bernthal, Sarah Wayne Callies

Paese: USA


E poi così, di colpo, dopo 2 stagioni intere, o quasi, una serie che ha mostrato fin a quel momento limiti evidenti e debolezze di vario tipo, generando nello spettatore nient'altro che noia, irritazioni finanche cutanee e rabbia per l'enorme occasione sprecata, dimostra che in realtà non è che non fosse in grado di rendersi valida, semplicemente, forse, non le andava. Ho sempre criticato "The Walking Dead" con molta convinzione. E con la seconda stagione, poi, ho rincarato la dose ogni volta che me n'è capitata l'occasione. Era infatti diventata una sorta di Beautiful in un mondo zombiano senza zombie. Quest'ultimi erano quasi del tutto spariti e della trama non restavano che le dinamiche interpersonali tra caratteri di dubbio interesse, delineate attraverso dialoghi quanto meno deboli. Sono arrivato ad ipotizzare che lo scopo primo dei creatori fosse invero quello di metter su una critica al mondo odierno tratteggiando gli umani come i veri zombie, e gli zombie come la giusta cura, come coloro che avrebbero risollevato le sorti del mondo a forza di morsi. Si sarebbe spiegato così il perché della ormai quasi totale assenza di uccisioni violente di walkers e il perché della gestione così urticante dei personaggi.
Non abbandono mai una serie che ho cominciato o di cui ho visto più di qualche puntata. Deve sfinirmi sul serio perché io lo faccia. “The Walking Dead” è riuscita nell'impresa. A quattro puntate dalla fine della seconda ho lasciato, non ce la facevo più. Volevo mordere Convulsion-Shane, l'uomo che fa dieci scatti con il capo nel dire una sola frase. Di due parole. Volevo uccidere Rick e le sue pippe un tanto al chilo, la sua mancanza di carattere. Volevo picchiare sua moglie, per evitare di far nascere il bambino che portava in grembo in quel mondo di zombie vivi. Volevo prendere a pedate la testa del vecchio, perché parlava troppo, e quella di Hershel, perché semplicemente era troppo stupido per non morire. Davvero, ero arrivato al limite. Questo mesi addietro. Poi un paio di giorni fa decido di riprendere in mano le ultime 4 puntate della stagione, anche in vista dell'inizio della terza. Son sincero, lo avevo fatto con l'unica intenzione di venire qui a sfogarmi, scrivendone di ogni, e per riderci poi su, insieme. Ed è successo l'impossibile. Gli ultimi episodi mi son piaciuti; intendiamoci, qualche cazzata qua e là c'è sempre, ché altrimenti non sarebbe TWD, ma mi son piaciuti.
In appena 120 minuti la serie dimostra, come scrivevo inizialmente, che in realtà non era incapacità la sua, ma pigrizia o qualcosa di simile. Dimostra, in appena 120 minuti, che le posizioni dei vari personaggi, i loro caratteri non erano poco interessanti o poco credibili, né poco condivisibili e realistici, ma solo sviluppati male, senza la giusta introspezione. Il loro fascino potenziale cadeva sempre più rovinosamente sotto i colpi insistenti di dialoghi banali e di sequenze tutt'altro che efficaci. Ed è così che Rick inizia a tirar fuori un po' di carattere tra la fine della seconda stagione e l'inizio della terza; che il vecchio affianca un po' di pathos (trasmettendo di conseguenza una certa empatia) alle sue solite menate, che diventano pertanto meno menate e più riflessioni circostanziate e funzionali al racconto; che la cartolina un po' Beautiful inizia a strapparsi e il confine buoni/cattivi inizia a scemare; che Hershel tira fuori un po' di palle e comincia ad uccidere zombie con frasi ignoranti ma molto fighe tipo “Venite qui!!” manco fosse Rambo; che Carl inizia a smettere di comportarsi come un adulto e comincia finalmente a fare stronzate da bambino che più semplicemente si crede un adulto; che Shane, addirittura, diviene miracolosamente un personaggio di spessore. Dopo essere stato irritante nella sua pochezza per svariate puntate, fa un discreto salto di qualità con la fine della puntata 2x10: neanche 30 secondi, nessun dialogo, solo una serie di ideali campi-controcampi tra Shane e il se stesso riflesso in uno zombie solitario che vaga con un andamento che quasi sembra una ballata triste; il tutto accompagnato dall'ottima “Civilian” degli Wye Oak. La scena è inaspettatamente potente ed è il simbolo della differenza evidente di qualità tra la serie come la conoscevamo e gli ultimi episodi. “E ci voleva tanto?”, vien da chiedersi.


Ed ora la gente comincia a morire seriamente, nel senso che le morti si sentono, perché i personaggi generano adesso un minimo di empatia in più. Gli zombie tornano sullo schermo, tornano a mangiare gente, tornano ad essere il nemico anche per lo spettatore. Si accennava in precedenza che non si sta scrivendo affatto della ripresa del secolo, ma è giusto sottolinearla comunque, così come si sottolineano i limiti quando ci sono. La terza stagione è cominciata da poco e sembra avere anch'essa il suo ritmo, sembra essere discretamente godibile. Magari è stato un sussulto lungo qualche puntata, magari no. Speriamo di no.


martedì 4 settembre 2012

True Blood - Quinta Stagione


TRUE BLOOD (2008)





Creatore: Alan Ball

Attori: Anna Paquin, Stephen Moyer, Alexander Skarsgård,  Kristin Bauer

Paese: USA



Nel caso qualcuno ancora non se ne fosse reso conto, è bene specificare che “True Blood” è senza dubbio alcuno una delle migliori serie televisive in circolazione. E' vero, non riesce nel corso delle varie stagioni a mantenere sempre degli standard invidiabili (del resto a riuscirci è stato fino ad ora un numero davvero esiguo di prodotti televisivi), ma è altrettanto vero che con l'ultima stagione andata in onda, la quinta, Alan Ball dimostra che la sua seconda creatura ancora riesce a scalpitare, offrendo un intrattenimento assai difficile da trovare altrove. Sì, perché quello offerto da “True Blood” non è affatto di facile realizzazione come potrebbe sembrare: è quello totalmente privo di fastidiose riflessioni sul senso della vita, privo di particolare spessore, oltreché, come è giusto che sia in questi casi, di un'accurata introspezione. In altri termini, è l'eccesso che non ha bisogno di giustificare se stesso, il ritmo elevato che non ha bisogno di essere preceduto da una struttura narrativa solida: è il cervello spento, tanto amato in questo blog.


Non è di facile realizzazione, si scriveva. Sì, perché in assenza di spessore e ricercatezza il rischio di trasformare il tutto in un baraccone privo di fascino, grondante di cliché, banale e ben poco divertente è appena dietro l'angolo, e forse anche meno lontano. Si rende necessaria una certa maestria per tenere in piedi uno script simile e il creatore di “Six Feet Under”, ergo un uomo ben lungi dall'essere un incapace, a quanto pare ne ha da vendere. Punta sull'ironia e sull'autoironia, rende il prodotto cosciente della sua identità e gli permette di non prendersi mai troppo sul serio. Questo aspetto è assolutamente fondamentale, imprescindibile, senza il quale “True Blood” si sarebbe risolto in un prodotto fotocopia dei vari “Twilight” che infestano schermi cinematografici e televisivi. Ovvio, vi sono altri aspetti che differenziano i due tipi di prodotti, ma l'autoironia è, parere di scrive, la principale discriminate. E la quinta stagione sembra rendersene ulteriormente conto; è il motivo per cui la frase che Eric pronuncia in una delle prime puntate stampa sulle labbra dello spettatore un sorriso che non andrà via fino al termine della stagione: esce dal container nel quale aveva prima discusso e poi fatto sesso sfrenato con sua sorella, si abbottona i pantaloni e rivolgendosi a Bill con visibile autocompiacimento dice “We fight like siblings, but we fuck like champions”. In questa frase c'è più o meno tutto lo spirito di "True Blood", a metà tra ironia, per l'appunto, e fascino “da due lire”. Tutti i caratteri, non a caso, si distinguono con uscite dello stesso tipo, e in questa quinta stagione si pensa bene di aggiungere qualcosa come altri dieci personaggi, tutti quanto meno sopra le righe (i membri dell'Autorità). Inoltre c'è Russel Edginton, vecchia conoscenza, che illumina la scena come pochi; sarebbe sufficiente il suo volto che sbuca di fianco a quello della sposina intenta a cantare per il suo neo-marito a giustificare la messa in onda di questa ennesima stagione.


A non venir meno in questo quinto appuntamento è chiaramente anche l'eccesso, che proprio grazie al non prendersi sul serio di cui sopra può non preoccuparsi di porsi limite alcuno, nei dialoghi come negli snodi narrativi. E' così che la serie basata sui romanzi della Harris tira fuori un bimbetto di svariate centinaia di anni che parla di massacri e guerre, un night club gestito da fate, vampiri affetti da fanatismo religioso, maledizioni, mostri di fumo (non quello di “Lost”, fortunatamente) e via discorrendo. Tutti eccessi che se non gestiti con la stessa accortezza avrebbero portato alla noia nel giro di qualche puntata, ma che invece in “True Blood” coinvolgono al punto di divorare puntata dopo puntata in attesa di quello che già si sa essere un finale ancora più eccessivo di quanto visto fino ad allora. Puntualmente, infatti, il finale si rivelerà tale, forse anche più di quanto ci si aspettasse.

E poi di colpo la quinta stagione riesce anche ad emozionare. Peraltro grazie a due dei personaggi più idioti dell'intera serie. La scena Di Hoyt e Jason con Jess, nel bar, è insospettabilmente potente e conferisce una serietà al tutto che chiaramente svanirà in men che non si dica, ma che restituisce comunque una ulteriore piacevole sensazione, seppur del tutto distante dall'animo cazzeggione del prodotto. Scena, oltretutto, nella quale vengono fuori doti attoriali di tutto rispetto, che invero, forse proprio per l'assenza di scene particolarmente profonde, non viene mai fuori con tale forza. Tranne nel caso, è doveroso sottolinearlo, di attori come Denis O'Hare, magnificamente sopra le righe nell'interpretare Russel Edginton: quel suo “I'd love to come to dinner” contornato dall'espressione riportata nell'immagine che segue fa bene all'anima.


Oltre all'anima a trarre giovamento da questi altri 12 episodi è ovviamente anche l'organo cerebrale, che può riposarsi abbandonandosi all'oblio e godendo di una leggerezza che riuscirebbe ad anestetizzare anche i neuroni del più accanito pensatore. Neuroni che si risveglierebbero, peraltro, solo per contare i giorni che li separano dai prossimi 12 episodi, grazie al finale di cui si scriveva, capace in tre secondi di spalancare le porte ad uno script potenzialmente tanto trash quanto adrenalinico.


(questo purtroppo non è un ritorno, ma non potevo non scrivere due parole su questa stagione)


lunedì 19 marzo 2012

There's Something In The Air This Week...


Come da titolo, questa settimana va così. Aggiornerò in maniera ben meno dettagliata. Oppure non aggiornerò proprio. E sarebbe, nel caso, una pausa elastica, nel senso che potrebbe durare di più o terminare domani. Spero ardentemente che per la prossima settimana si possa riprendere come sempre, considerando che da queste parti c'è un simpatico festival di cinema: Il Bifest. Ogni anno, per l'occasione, i cinema della città di Bari vengono riempiti di pellicole (opere prime, lungometraggi, cortometraggi e documentari in concorso e fuori concorso) e mostre/seminari/speciali. Nel caso cercherò, per quanto possibile dato che vengono mandate pellicole da mattina a sera, di aggiornare in contemporanea e in presenza di opere degne di nota e anche di 'mmerde degne di nota (ché a noi comunque in fondo in fondo ci piacciono).

Ciò detto, passo al mini-aggiornamento/consiglio di oggi. Nel caso non lo conosciate o nel caso l'abbiate sentito di sfuggita senza avergli dato troppo peso, allora è davvero il caso vi soffermiate su un tipo quanto meno simpatico ed originale, foss'anche solo esteticamente, che risponde al nome di Jay Munly. Il fantasma, poi capirete perché, ha ricevuto numerosi riconoscimenti, lì in Colorado, per aver proposto un tipo di musica riconoscibile e frutto della commistione di vari generi, principalmente country, folk ed elementi musicali gotici. In ogni caso voi di queste definizioni ve ne sbatterete altamente nel cercare di comprendere emotivamente la sua musica, e vi limiterete ad ascoltare e percepire così come viene.
Un consiglio nel consiglio, d'obbligo quando si tratta di cantautori, è quello di leggere i testi dei singoli brani... e, come si suol dire, good luck with that. Non scrivo altre notizie geografico/personali/artistiche perché siete grandi e vaccinati e confido nel fatto che saprete cercarvele da soli, quindi passo direttamente al postare un paio di brani dall'album registrato da Munly con i (The) Lee Lewis Harlots. I titoli dovrebbe essere più che sufficienti ad incuriosirvi.

1) Munly & The Lee Lewis Harlots - A Gentle Man's Jihad


2) Munly & the Lee Lewis Harlots - The Leavening of the Spit-Bread

"Girls you spit all day, your throats will dry and flake.
Here’s my offering, take my spit-kiss and your dry will go away
"


Sì, Munly è il secondo da destra. Un fantasma che si diverte a fare il musicista. Nel caso i due pezzi non vi abbiano convinto a sufficienza, allora provate ad ascoltare qualche brano del suo album da solista "Jimmy Carter Syndrome". Sonorità simili e diverse al tempo stesso:

1) Jay Munly- My Darling Sambo


2) Jay Munly - Spill The Wine



Se neanche queste due vi hanno convinto, allora niente, cazzi vostri.

A presto.


venerdì 16 marzo 2012

The Bang Bang Club


THE BANG BANG CLUB (2010)




Regista: Steven Silver

Attori: Ryan Phillippe, Malin Akerman, Taylor Kitsch, Neels Van Jaarsveld, Frank Rautenbach

Paese: Canada, Sudafrica


Un inizio, quello di “The Bang Bang Club”, non certo dei migliori. Diciamo anche uno dei peggiori. Nella loro debolezza, in realtà, le prime parentesi settano il livello di tutta la prima parte, e oltre, della pellicola su un livello davvero basso. Sembra che si punti principalmente a rendere accattivanti i personaggi nella maniera più superficiale possibile, dipingendoli come giovani uomini sprezzanti del pericolo, irresistibili e che se la tirano anche un po'. Perché a qualche “uhh” tra il pubblico più giovane non si può mai rinunciare. In particolare, nella sequenza che per la prima volta li vede all'interno del bar in cui normalmente si ritrovano, parte una manica di sventole che metà bastano. Una per ognuno dei tre, di lì a poco quattro, fotografi, e ognuna di esse con la sua entrata in scena ad effetto.

Fotografi. Per la precisione fotografi di guerra. I quattro protagonisti sono infatti i membri di quello che venne in seguito chiamato, per l'appunto, “Bang-Bang Club”, ossia il gruppo che forniva immagini degli scontri in Sudafrica al “Johannesburg Star”. Il periodo è quello dei primi anni '90 e delle guerriglie in strada per l'Apartheid; le stesse che hanno permesso ad uno dei membri, Greg, di vincere il premo pulitzer per uno scatto poi ovviamente divenuto celebre. La pellicola si concentra quindi sulle vite dei quattro fotografi, cercando di raccontarli e di raccontare il loro percorso. 


Come probabilmente risulta chiaro dalle prime righe scritte, quel “cercando” non si risolverà affatto nel trovare qualcosa, pur tendendo a sfumare nel prosieguo l'esagerazione iniziale. Se l'intenzione era quella di descrivere caratteri tronfi e sprezzanti del pericolo nei quali si nasconde una personalità intaccata dagli orrori della guerra, infatti, la pellicola avrebbe in seguito dovuto mostrare una forza introspettiva affatto indifferente, della quale però non vi è neanche l'ombra. Ad essere palese, invece, è il voler conquistare lo spettatore con trovate di facile presa, ed è inutile sottolineare quanto deleterio sia per una pellicola che racconta simili orrori e le conseguenze degli stessi su chi ha guardato la guerra negli occhi per anni. I caratteri appaiono posticci fin da subito ed aprire attraverso gli stessi finestre empatiche su quanto accade diviene decisamente arduo.
Le interpretazioni non aiutano di certo. Al netto di Taylor Kitsch, non del tutto convincente ma con degli occhi espressivi al punto di salvarlo in più di un'occasione, nessuno dei restanti tre dà al suo personaggio un minimo di spessore. Ryan Philippe nello specifico, peraltro protagonista, sembra completamente al di fuori della pellicola, tanto che ogni sua espressione è pressoché nulla (oltretutto alla costruzione del film ha partecipato proprio Greg Marinovich, il personaggio da lui interpretato, ma Philippe comunque sembra non aver sfruttato la cosa a suo vantaggio).


Per assistere ad una ricerca maggiore dell'elemento introspettivo bisogna aspettare parecchi minuti, durante i quali, al di là di qualche scambio assolutamente debole e non sostenuto da una struttura filmico-narrativa, la pellicola vive della spettacolarizzazione insita nelle sequenze degli scontri. La ricerca, tuttavia, si mostra nuovamente improduttiva. A smuovere l'interesse è la storia in sé dei 4 fotografi, che funziona già di suo, specie con i risvolti drammatici che seguiranno, ma la resa cinematografica degli stessi continua ad essere assente. Non ci si sintonizza con il loro stato d'animo, i loro dubbi, né con le loro sofferenze. Un documentario sarebbe stato senza dubbio più emozionante e meno irritante. E non basta di certo qualche domandina buttata lì (“ma cosa sto facendo?”) per rendere l'effetto devastante provocato da un bombardamento giornaliero degli orrori descritti. Qui ci si limita ad una cronistoria (non è un caso che il regista abbia un passato di soli documentari) male interpretata e goffa nel suo non riuscire a dare spessore, in cui la narrazione viene sacrificata gratuitamente, neanche in nome di qualcosa. Non resta quindi molto, se non l'interesse verso i fatti reali che hanno visto protagonisti i quattro fotografi. Se il soggetto non fosse tratto da una storia vera, in tutta probabilità non si riuscirebbe nemmeno a portare a termine la visione.


giovedì 15 marzo 2012

Café de Flore


CAFÉ DEL FLORE (2011)




Regista: Jean-Marc Vallée

Attori: Vanessa Paradis, Kevin Parent, Hélène Florent, 
          Marin Gerrier, Evelyne Brochu

Paese: Canada, Francia.


Puntare ad emozionare e puntare all'emozione. Potrebbero sembrare due concetti del tutto simili, ma sono in realtà completamente differenti. Spesso il cinema emoziona con una storia, alcune volte invece raccontando le emozioni stesse. Wong Kar-Wai. Lui le afferra con una sbalorditiva e apparente semplicità, le fissa su pellicole e le mostra allo spettatore. Quest'ultimo, nel trovarsele davanti in quella che sembra la loro forma più pura, non può che osservarle e lasciarsi pervadere inerme. Quando questo tipo di cinema riesce, generalmente il risultato è devastante.
Café de Flore” sembra guardare esattamente a tale linguaggio filmico. Lo intreccia con una storia divisa in due piani narrativi distanti nel tempo e nel soggetto, per poi creare continuamente ponti emozionali che li avvicinino fin quasi a non avvertire alcuna differenza. Perché i sentimenti raccontati sono gli stessi, sono sempre gli stessi. L'emozione è astratta, sfugge al tempo e alle definizioni. Nell'inquadrarla, nel ricercarla in maniera insistente, nel farne la sua unica forma di comunicazione Vallée azzera le differenze nelle due storie, o almeno nella percezione delle stesse. Racconta l'amore di una madre per il suo bambino mentre parla di un amore sensuale e passionale come quello del protagonista con la sua compagna, non rendendo mai disomogeneo il ritratto restituito. Sfruttando anzi, al fine di trascinare nell'emotività minando la razionalità, il disorientamento nell'osservare storie così distanti senza avvertire stridii e forzature; sfruttando il disorientamento provocato dalle porte audio-visive che si aprono su altri personaggi o piani narrativi. 


La pellicola è più una dimensione che un intreccio, un limbo in cui la ragione fatica a sopravvivere, in cui non sa come muoversi né a cosa rivolgersi. Si scontra con un linguaggio che non può comprendere e nel quale non riesce ad inserirsi. È lo stomaco ad osservare e sentire non la mente. Tutto troppo sfumato perché la logica possa orientarsi, sarebbe come inoltrarsi in “Inland Empire” armati di ragione. Il risultato sarebbe disastroso. Non si sta paragonando il regista canadese a registi enormi quali Lynch e Wong Kar-wai, sia chiaro, ma il lessico è lo stesso, foss'anche solo nelle intenzioni. Non è un caso che anche Vallée si lasci andare ad un uso assai preponderante di tutti quegli strumenti cinematografici in assoluto più filmici e meno realistici. Da una fotografia in continua ricerca di luci e tonalità suggestive, ad una regia seppur elegante non propriamente sobria, passando per un montaggio tanto dinamico e frenetico quanto soffice e fluente. Quest'ultimo in particolare si rivela essenziale nel suo riuscire a seguire, ma anche a dettare, i tempi dei due elementi più importanti nella costruzione della dimensione di cui si scrive, ossia musiche e narrazione non cronologica. Vallée, infatti, non solo disorienta con i due piani narrativi, ma li sfuma continuamente con ricordi, passaggi e sovrapposizioni, che non rende però mai didascalici, preservando così il dominio emotivo; dominio emotivo suggellato da una colonna sonora meravigliosa, capace con Sigur Rós, Nine Inch Nails, Cure e Pink Floyd, come anche con musica elettronica e lounge, di allontanare definitivamente ogni sequenza dalla realtà e restituire un racconto senza tempo né spazio.


A non porre limiti razionali è poi anche il soggetto stesso. Si scriveva delle due storie parallele e distanti nel tempo. Non di qualche anno, però, bensì di decadi. E pur non essendoci di fatto collegamenti concreti tra le stesse, si avverte un legame che non ci si riesce a spiegare, ma che quando al termine viene palesato non fa altro che contribuire a rendere il tutto impalpabile ed etereo. Sarebbe forse stato utile, a tal proposito, far terminare la pellicola qualche minuto prima, senza calcare troppo la mano sulla risoluzione, ma ci pensa ancora una volta la colonna sonora a metterci una pezza, incantando e indebolendo la capacità di critica.
Ciò che invece neanche la colonna sonora riesce a smorzare è la sensazione che la pellicola non sempre si mostri in grado di tenere le redini del racconto. Non le sfuggono mai, sia chiaro, ma il coinvolgimento emotivo a volte tende a calare, e in special modo per un cinema simile rischiare di uscire sistematicamente dalla dimensione ricreata è quanto mai deleterio. Una sensazione, questa, che con i due cineasti citati in precedenza non accade mai. Per addirittura tre ore, nel caso di Lynch.


Nonostante qualche limite, tuttavia, quella di Vallè resta un'opera ben interpretata (strepitosa Vanessa Paradis) emozionante e viva, alla quale è necessario lasciarsi andare, se non ci si vuol trovare davanti a qualcosa che potrebbe altrimenti apparire eccessivamente patinato e finto. Cerca l'incanto visivo e sonoro e, almeno nel caso di chi scrive, ci riesce senza dubbio alcuno, dimostrando originalità, inventiva e ricercatezza artistica.


mercoledì 14 marzo 2012

American Faust: From Condi To Neo Condi


Non disdegnando, questo spazio, pellicole quasi sconosciute, né documentari e non avendo molta voglia di scrivere perché oggi è così, ripesco una vecchia recensione già pubblicata altrove, perché interessante, l'opera, e degna d'attenzione.


AMERICAN FAUST: FROM CONDI TO NEO CONDI (2009)


Regista: Sebastian Doggart

Paese: USA


"American Faust" è il secondo lavoro cinematografico di Sebastian Doggart, nonché il suo secondo lavoro cinematografico su Condoleeza Rice, 66° Segretario di Stato degli Stati Uniti, sotto l'amministrazione Bush. È "Courting Condi", infatti, il titolo della prima pellicola del regista britannico, che, muovendosi tra fiction e documentario, racconta le vicende di un uomo innamorato della Rice e intenzionato a conoscere ogni suo aspetto al fine di conquistarla.
Se nel suo primo lavoro Doggart sfrutta la finzione per costruire quello che sarà poi un documentario, questa volta, invece, alza il tiro e per la sua invettiva costruisce un documentario dalla struttura decisamente classica.

La pellicola dell'autore londinese si pone l'obiettivo di inquadrare il soggetto scelto da tutti i punti di vista, sì da poterne fare un'analisi a 360 gradi, completa ed esaustiva. Gli eventi narrati ricoprono un arco temporale molto ampio, più precisamente dagli anni '50 ad oggi, o ciò che è lo stesso, dai primi anni di vita e formazione di Condoleeza Rice fino agli ultimi accadimenti politici che l'hanno vista protagonista, passando per gli studi e la carriera di colei che diverrà la prima donna afro-americana a ricoprire il ruolo di segretario di stato degli Stati Uniti.

Titolo completo dell'opera è "American Faust: From Condi to neo Condi" e, da solo, è già più che sufficiente ad inquadrare le due fasi o aspetti principali sui quali il regista costruisce l'intero documentario.


"American Faust"

L'accostamento di Condoleeza Rice al protagonista dell'ormai famosissimo racconto popolare tedesco è quanto mai calzante, oltreché funzionale all'impostazione che Doggart intende dare alla sua opera: così come Faust, in cambio della conoscenza assoluta, vende l'anima al Diavolo, allo stesso modo la Rice, in cambio di un potere sempre maggiore, vende l'anima ai meccanismi più bassi della politica. Si scava così nel passato di una delle figure politiche di spicco degli ultimi anni allo scopo di tratteggiarne in maniera dettagliata aspetto umano e personalità, e comprendere se non altro alcune delle caratteristiche che hanno poi portato all'attuale Condoleeza Rice.
A venirne fuori è il ritratto di una personalità forte, determinata, con degli obiettivi ben precisi e una ferma intenzione di raggiungerli. L'interesse per la politica nasce infatti relativamente presto, di lì in poi non smetterà più di coltivarlo e lo preferirà a qualsiasi altra cosa, come si evince dalle dichiarazione dell'uomo che avrebbe dovuto sposare ma che, invece, decise di lasciare per accettare un'importante offerta di tirocinio a Washington. La prima parte del documentario, in realtà, è incentrata su questo aspetto e delinea a tutti gli effetti una donna, ragazza a quel tempo, che semplicemente ha sempre messo la carriera al primo posto. Fin qui, quindi, non solo non vi è alcuna critica nei confronti di Condoleeza Rice, ma sembra quasi che vi sia, per la stessa, una vena d'ammirazione.
Primi anni '90, Condoleeza Rice viene nominata rettore alla Stanford University ed eredita un buco di vari milioni di dollari. È questo il periodo in cui per la prima volta si comincia ad intravedere il Faust al suo interno: la stessa alla fine del suo mandato non solo aveva recuperato il buco lasciato dalla precedente amministrazione ma lasciava l'università in attivo. Nel contempo, però, i tagli furono enormi, con conseguenti, numerosi licenziamenti, peraltro traghettati da un'assoluta noncuranza nei confronti dei licenziati – Una di loro, in particolare, amica del padre della Rice, racconta che dopo averla licenziata uscì dall'ufficio e si limitò, dopo un sospiro, ad un "Well, who's next?" ("Bene, chi è il prossimo?"). Di qui in poi e soprattutto attraverso, tra le altre cose, la prima esperienza con George W. Bush, non vi è altro che il perfezionamento del contratto di vendita di cui sopra, fino alla firma definitiva avvenuta in contemporanea con l'attacco ingiustificato all'Iraq.


"From Condi to neo Condi"

Ad emergere con forza dal documentario è un altro aspetto, anch'esso imprescindibile per le intenzioni del regista, ossia il netto cambiamento ideologico/politico di Condoleeza Rice. È un aspetto questo che, in realtà, si intreccia a quello precedentemente analizzato fino non poter più esservi separato.
Ciò che accomuna le varie testimonianze e molte dichiarazioni della stessa Rice, infatti, è la discordanza evidente che da esse vien fuori tra il ritratto della Condoleeza Rice antecedente al periodo George W. Bush (e Stanford University) e il ritratto della Condoleeza Rice del periodo che segue tali parentesi. In particolare, quelli che furono i suoi professori all'università sottolineano proprio il drastico cambio di rotta ideologico-politico, oltreché umano, come base del cambiamento della persona nel suo insieme; quello stesso cambio di rotta ideologico-politico che ha poi inesorabilmente segnato la credibilità e l'immagine della donna nel momento più alto della sua carriera.
Quanto succede, infatti, a seguito dell'attacco terroristico delle torri gemelle, ossia l'attacco ingiustificato all'Iraq, con conseguente propaganda volta a far leva sulla paura e sull'orgoglio ferito degli americani, sì da poter vendere una guerra invendibile, l'aver autorizzato l'uso della tortura e l'aver, riguardo tutto ciò, spesso mentito o mistificato davanti alle telecamere o con dichiarazioni ufficiali, trascinerà la Rice in tribunale e ne comprometterà seriamente l'immagine. Il passaggio "dalla vecchia Condi alla nuova Condi", dalla Condi contraria all'uso della forza e alle torture, oltreché sostenitrice del riconoscimento e del rispetto dei diritti di ogni essere umano alla Condi che si ritaglia un ruolo primario nell'attacco ad un'altra nazione, che autorizza le torture e sostiene politiche di deportazione di innocenti sulla base di prove assolutamente irrilevanti, diviene così ufficiale.


La tecnica documentaristica che Sebastian Doggart sceglie per costruire la sua personale inchiesta è semplice, asciutta e quanto mai schematica.
Non vi è alcuna voce fuori campo che si occupi di collegare gli eventi narrati o addirittura di esprimere il punto di vista dell'autore, al contrario, la pellicola è così schematica che a dettare i tempi è una linea temporale con date salienti e con tanto di didascalie a spiegarne l'importanza. Tutto, quindi, è lasciato alle testimonianze raccolte dal regista britannico, che dovrebbero da sole permettere allo spettatore di crearsi un'opinione senza linee guida di sorta, anche se, ovviamente, non si può prescindere dalla critica evidente di fondo. È tuttavia parere di chi scrive che in alcuni frangenti Doggart cerchi l'attacco a tutti i costi, ricalcando testimonianze di facile presa, come il riproporre nel finale le dichiarazioni dell'ex fidanzato sacrificato in nome della carriera, a discapito della maturità dell'opera.

"American Faust: From Condi to neo Condi" è quindi un documentario non incentrato prettamente sull'aspetto politico di Condoleeza Rice, ma su quello umano. Avvicinarsi ad esso sperando in un altro "Taxi to the Dark Side", stupenda e penetrante pellicola sulla guerra ed in particolare sulle torture, sarebbe un errore. Ciò non toglie, però, che anche politicamente, benché non emergano dall'inchiesta aspetti nuovi rispetto a quelli ormai noti, il documentario abbia una certa capacità corrosiva, che può riassumersi in una delle dichiarazioni fatte dalla giornalista Laura Flanders (GritTV) dopo la visione del film: "'American Faust' makes the case that the correct word to be spelling Condoleezza Rice is probably 'torturer'.", ossia "Stando ad 'American Faust', il modo migliore per pronunciare Condoleeza Rice è in tutta probabilità 'aguzzino'."

Un punto di vista diverso, quindi, che, seppur debole sotto alcuni aspetti, merita sicuramente una visione. Del resto, tutte le pellicole di questo tipo la meriterebbero.


martedì 13 marzo 2012

Il commento utile: "The Good Heart" e "Año Bisiesto"


Dato che non vedo il motivo, come al solito, per cui come me anche voi dobbiate vedere pellicole che si potrebbero evitare, mi sembra cosa buona e giusta mettervi in guardia. Di seguito un paio di pellicole viste di recente e che sconsiglio:



THE GOOD HEART (2009)





Regista: Dagur Kári

Attori: Paul Dano, Brian Cox and Bill Buell

Paese: Danimarca, Islanda, USA, Francia, Germania


Il nome Dagur Kári probabilmente non vi dirà nulla. Il titolo del suo esordio, però, vi dirà forse qualcosa in più. “Nói Albínói” infatti non è certo una pellicola che lascia indifferenti; non sconvolge ma è sufficientemente atipica e personale da lasciarsi ricordare. Con questo suo terzo lungometraggio, tuttavia, il regista islandese sembra non aver nel tempo coltivato particolarmente quello stile non solo intravisto nella sua opera prima. Pur non abbandonando una fotografia quasi gelida e delle parentesi ironiche spiazzanti e in grado di strappare più di un sorriso, non riesce ad imprimere alla pellicola quella forza necessaria a renderne interessante o anche solo piacevole la visione.

L'intreccio tra le altre cose è fin troppo debole. Su questo aspetto si sarebbe potuto chiudere un occhio, essendo principalmente una commedia, ma non mostrandosi la pellicola capace di offrire anche dell'altro, diviene impossibile non prenderlo in considerazione e anzi aspettarsi qualcosa dallo stesso. Invano, è il caso di aggiungere. Non che gli scambi o i personaggi delineati non funzionino; invero, al contrario, hanno un potenziale che se fosse stato sfruttato con maggiore convinzione avrebbe permesso al film di imporsi in maniera ben più memorabile. E invece quel potenziale i protagonisti si limitano a mostrarlo salvo poi non andare oltre. Se quindi inizialmente “The Good Heart” appare accattivante con un certa facilità, nel prosieguo con altrettanta facilità stanca, fino alla chiusura, che è anche la parte meno riuscita dell'intera opera.

A rendere più amaro il retrogusto dell'occasione sprecata interpretazioni assolutamente ottime. Da Brian Cox a Paul Dano, passando per caratteristi quali Damien Young e Nicolas Bro (protagonista di "Offscreen").



ANO BISIESTO (2010)





Regista: Michael Rowe

Attori:  Monica del Carmen, Gustavo Sánchez Parra

Paese: Messico


Vincitore del prestigioso premio “Caméra D'or” a Cannes, l'esordio dell'australiano Michael Rowe è a mio avviso leggermente deludente. C'è del metodo e della ricercatezza, su questo non v'è dubbio alcuno. A partire da scelte coraggiose come quella della location. È una sola, ossia la casa della protagonista; la regia non uscirà mai fuori dalla stessa, tanto da riuscire a creare un senso di claustrofobia decisamente funzionale al racconto; anche i movimenti di macchina sembrano porsi lo stesso obiettivo, optando per una quasi totale assenza di movimenti veloci o di sequenze troppo brevi. In tal modo viene azzerato un dinamismo che non fa altro che accentuare l'atmosfera oppressiva del film. Forse troppo, però. Scemata infatti la curiosità iniziale generata da qualsiasi opera, l'assenza di dinamismo risulta utile ad uno sguardo razionale, ma improduttiva a livello prettamente emotivo. Si tenga presente che la protagonista è, insieme all'uomo con cui dà inizio ad una relazione, l'unico personaggio, ma Rowe non lo rende tale da provare nei suoi confronti un particolare trasporto. A livello razionale, ancora una volta, delinea perfettamente il personaggio, ma il risultato è proprio in quanto tale freddo.

Altra scelta coraggiosa ma ottimamente gestita in “Ano Bisiesto” è il ricorso ad un sesso diverso, violento e sadomasochistico, descritto con una naturalezza assoluta, nonostante almeno un paio di scene nelle mani di qualche altro regista sarebbero state tutto fuorché naturali. Rowe invece non spettacolarizza nulla, non crea del facile sensazionalismo e tratta l'orientamento sessuale per quello è, ossia un semplice orientamento sessuale. Bravissima la protagonista, nelle scene più spinte come nelle altre; offre una prova anch'essa coraggiosa e al termine davvero notevole.

Ciononostante il limite principale della pellicola non viene mai aggirato, ossia la freddezza e incapacità di creare empatia, benché sulla carta pellicola e direzione della stessa siano difficili da criticare. Ed è questo il problema, in tutta probabilità, ossia molta attenzione all'estetica e alla tecnica e meno, molto meno, al volto più viscerale del racconto.


lunedì 12 marzo 2012

"Hell On Wheels" - Prima Stagione


HELL ON WHEELS (2001)




Ideatore: Joe Gayton, Tony Gayton

Attori: Common, Colm Meaney,
Anson Mount,
             Dominique McElligott

Paese: USA



Make no mistake. Blood will be spilled. Lives will be lost. Fortunes will be made. Men will be ruined. (…) There will be betrayal, scandal and perfidy of epic proportion, but the lion shall prevail.

Queste le parole con cui ci eravamo lasciati dopo aver scritto del pilot di “Hell on Wheels”. Pronunciate da Durant, uno dei protagonisti della serie, distribuivano speranze affatto indifferenti senza troppa parsimonia. Mostrando peraltro una certa arroganza, considerando il fatto che il primo episodio non si è certo imposto come uno dei più avvincenti della storia televisiva. A quanto pare, però, i creatori della serie avevano già allora le idee abbastanza chiare sul prosieguo, tanto da potersi permettere promesse simili. Al termine di questa prima stagione si può affermare in tutta sicurezza che i rischi e i limiti mostrati inizialmente sono stati messi da parte senza difficoltà, del resto anzi, col senno di poi, non era neanche del tutto corretto parlare di limiti. Come molti altri prodotti, infatti, "HoW" non si mostra avvincente fin da subito perché punta su elementi che non si costruiscono certo in una sola puntata: sulle atmosfere più che sulla narrazione, non sul ritmo quanto sull'introspezione. Quest'ultima, nello specifico, non è in realtà così trascendentale ma è più che sufficiente, se si considera che la serie tende a restare nel mezzo; pur essendo introspettiva e d'atmosfera non rinuncia infatti agli altri due aspetti poc'anzi scritti, tanto che laddove uno non riesce ad andare oltre, subentra l'altro a raccogliere il testimone. La sinergia tra i vari elementi funziona, quindi, e funziona bene, tanto da rendere l'intera stagione assolutamente valida. 


È vero, quando si parla di ritmo non propriamente incalzante, di introspezione e di AMC la paura tende con prepotenza a travolgere lo spettatore trascinando il pensiero all'antagonista per eccellenza nell'universo televisivo contemporaneo. Ogni volta che si ascolta “previously on AMC's...” il panico è inevitabile, ma quando poi la frase termina con “... Hell on Wheels” invece che con “... The Woukin Ded”, si torna ben predisposti alla visione. Ed è un bene, perché quella che seguirà sarà con il giusto approccio una visione assai piacevole. Questa volta, infatti, di interazione e dialoghi da soap opera non ce ne sono, i tempi lenti vengono gestiti con criterio e l'intreccio si rende in un modo o nell'altro interessante. Nonostante il motore della vicenda, soprattutto nelle prime battute, sia il percorso vendicativo di Bohannon, la serie non si risolve in una corsa alla resa dei conti, in cui l'attenzione è calamitata dall'attesa della stessa e dal personaggio chiamato a portarla a termine; al contrario lo sguardo si amplia sensibilmente irradiandosi da ognuno dei personaggi principali: Elam apre la narrazione sugli schiavi e sulla loro situazione, Bohannon sulla guerra civile tra Nord e Sud che aveva appena devastato il Paese, Durant sul capitalismo, quindi sullo sviluppo come sulla speculazione, e Lily Bell sul volto più idealista del Paese. Vi è quindi la vendetta dell'uomo solitario e lo scenario di cambiamento di un'intera nazione. Il western classico e quello crepuscolare. Pistoleri che saldano i conti col passato e gente che guarda al futuro. Azione e disillusione. 


Non è difficile da capire, alla luce di ciò, il motivo per cui la serie non coinvolge immediatamente. Come quasi tutti i prodotti che ampliano lo sguardo e che puntano maggiormente sulle atmosfere, anche questa ha bisogno di tempo, quello necessario a costruire un contesto sufficientemente ampio al quale poi lo spettatore deve avvicinarsi ed adattarsi. In "Deadwood” per esempio, di cui si era già parlato quando si è scritto del pilot di “HoW”, l'azione è ancor meno presente, tanto che per affezionarsi a serie e personaggi di tempo ce ne vuole anche di più, salvo poi scoprire che di quei secondi non ne è andato perso nemmeno uno.
Un ruolo fondamentale nel creare il contesto come al solito ce l'hanno le atmosfere, in questo caso però ricreate grazie, più che ad una regia ottima nel suo essere sempre calibrata e ad una fotografia ricercata e assai funzionale, alle musiche. Nello specifico a quelle combinazioni, classiche in una serie, tra le stesse e il montaggio. Le scelte in tal senso sono tutte perfette nel loro essere talvolta accattivanti (western classico) talaltra avvolgenti (western crepuscolare). Stupenda quella in apertura della penultima puntata dei malinconici Mumford and Sons ad esaltare gli aspetti, sapientemente montati, meno spettacolari e affascinanti di una battaglia. 


In linea con tutto il resto il finale di stagione, che infatti non punta in quanto tale su un climax classico, contraddistinto da un ritmo in crescendo, ma su un montaggio alternato che per l'ennesima volta sottolinea le due facce di "HoW", quella riflessiva e quella più viscerale. Entrambe però permeate da una disillusione di fondo che tanto da alla serie. Si spera di non vederla scemare in seguito perché sarebbe davvero un peccato rinunciare al fascino di quello che si è rivelato uno dei pochi prodotti validi in circolazione.


venerdì 9 marzo 2012

The Enemy


THE ENEMY (2011)
(NEPRIJATELJ)




Regista: Dejan Zečević

Attori: Aleksandar Stojkovic, Vuk Kostic, Tihomir Stanic

Paese: Serbia, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Ungheria.


In quanto accanito spettatore, noto facilmente la differenza tra cinema d'autore e film di genere. Riesco a capire dopo i primi 5 secondi a quale delle due categorie un film appartiene. Devo ammettere che trovo la cosa molto fastidiosa. “The Enemy”, invece, si trova da qualche parte nel mezzo” 


Tra le varie dichiarazioni del regista quella riportata si rivela alquanto utile nell'affrontare il post visione della pellicola. Al termine della stessa, infatti, ci si ritrova leggermente disorientati, a metà tra il pensiero di aver visto qualcosa di un certo spessore e quello di aver assistito ad un'occasione sprecata. Il disorientamento, però, non dura molto e si risolve di lì a poco nella seconda ipotesi, grazie ad una riflessione del tutto simile a quella del regista. Si avverte chiaramente la duplice intenzione di "The Enemy" di offrire un cinema di genere non rinunciando, nel contempo, ad una certa ricercatezza, foss'anche quest'ultima solo contenutistica. Si avverte tuttavia altrettanto chiaramente che non volendosi sbilanciare in un senso piuttosto che nell'altro Zečević resta di fatto lì nel mezzo, immobile. L'intenzione dell'autore di non cedere ad alcun tipo di spettacolarizzazione è palese, tant'è che non riesce a rendere mai troppo avvincente la sua pellicola, capace non a caso di coinvolgere solo a tratti, peraltro più per curiosità che per meriti particolari. Punta al contrario, proprio al fine di delineare quello spessore a cui non voleva rinunciare, sull'introspezione e sui dialoghi. Peccato però che la qualità reale degli stessi sia distante sensibilmente da quella ideale: la caratterizzazione dei personaggi non è mai tale da renderli interessanti, né tanto meno degni dell'empatia di chi guarda. Sono semplicemente pedine di un intreccio e le si segue solo per la curiosità di cui si scriveva verso il prosieguo della storia. Neanche quello che avrebbe dovuto essere il personaggio più carismatico per l'impostazione data al racconto si rivela in realtà così magnetico, al netto dell'ovvio interesse iniziale. I dialoghi che lo vedono protagonista sono deboli al punto da falcidiare la potenza della sua figura.


Che sia un'occasione sprecata è oltremodo chiaro se si considera che nonostante quanto scritto non si fa troppa fatica a seguire il film fino al termine. La messa in scena, infatti, mostra di saper essere quando vuole suggestiva, grazie ad ambientazioni, fotografia e fascino insito nel soggetto. Quest'ultimo, nello specifico, nel raccontare un manipolo di soldati impegnati a pulire il territorio dalle loro stesse mine, essendo finita da soli due giorni la guerra civile in Bosnia-Erzegovina, difficilmente può non risultare attraente quando tra le rovine di una fabbrica viene scoperto e liberato un uomo murato vivo, che non sembra però aver accusato particolarmente il colpo. Se a far da cornice sono poi edifici semidistrutti tra un campo minato e l'altro e una fotografia spenta, che valorizza ottimamente col suo essere gelida lo scenario decaduto (risultato di tre anni di guerra), è difficile non subire seppur solo leggermente il fascino dell'opera.
Quando però la pellicola giunge al termine, e svaniscono quindi scenari e atmosfere, si realizza di non aver assistito ad una costruzione così solida, e che oltre alla mancanza di una caratterizzazione efficace, anche l'evoluzione delle dinamiche tra i singoli personaggi risulta poi tutt'altro che impeccabile. E anzi fin troppo semplicistica, se ci si avvicina alla linea interpretativa più sovrannaturale (che doveva poi, stando alle dichiarazioni del regista, essere l'unica, almeno nelle fasi iniziali del progetto).


Probabilmente rappresenta un limite durante la visione dell'ultimo lungometraggio del regista serbo anche la lontananza culturale dai territori e dalle persone raccontate. Lo stesso Zecevic appena 3 anni fa aveva diretto un documentario proprio su alcuni gruppi di persone che vivono nella paura dichiarata della magia nera. Magari se contestualizzato e filtrato risulterebbe più suggestivo e quindi maggiormente capace di smuovere, perché nel caso contrario, per l'appunto quello di chi scrive, il tutto si risolve in una visione se non da evitare comunque non in grado di far arrivare molto dall'altra parte dello schermo.


giovedì 8 marzo 2012

Source Code


SOURCE CODE (2011)





 Regista: Duncan Jones

Attori: Jake Gyllenhaal, Michelle Monaghan, Vera Farmiga

Paese: USA


Per motivi assolutamente non validi sui quali non ci si soffermerà in questa sede, ancora non ho visto l'esordio apprezzato un po' ovunque di Duncan Jones, “Moon”. Ieri però ho visto la sua seconda prova dietro la macchina da presa. Con “Source Code” il regista sembra non abbandonare i lidi esplorati in precedenza e si serve nuovamente della fantascienza per mettere in scena un thriller che sembra non disdegnare affatto l'aspetto più umano del racconto. Cerca di penetrare in concomitanza con l'evolversi dell'intreccio la parte più intima dei protagonisti, nonostante il ritmo necessariamente serrato di una sceneggiatura la cui impostazione non concede pause di sorta. 


8 minuti. Sono quelli concessi sistematicamente al protagonista, il capitano Colter Stevens (Jack Gyllenhaal), per salvare i passeggeri di un treno dall'esplosione di una bomba nascosta al suo interno. Sul treno, però, c'è anche lui. Non è un'esercitazione virtuale, è un trasferimento temporaneo di coscienza attraverso cui Stevens può rivivere gli ultimi 8 minuti di vita di uno dei passeggeri, avendo la possibilità di interagire con persone e ambiente come se tutto fosse reale. Ogni volta che muore in quegli 8 minuti torna alla realtà, per poi essere trasferito nuovamente sul treno.

Diviene chiaro, dopo aver letto il soggetto, perché si scriveva dell'assenza strutturale di pause. Assenza che Jones, almeno nelle battute iniziali, sembra rimarcare ulteriormente al punto di rendere ancor più incalzante la narrazione. A tale scopo blocca lo spettatore nella stessa identica situazione in cui è bloccato il protagonista, cercando con forza di far arrivare dall'altra parte quella sensazione di claustrofobia e fisica e mentale in cui si ritrova Stevens. In tutta probabilità, però, è proprio una simile impostazione che non permette al regista americano di approfondire con risultati più efficaci l'aspetto empatico del racconto. Se durante le primissime battute infatti, impegnati a cercare di capire cosa si nasconda dietro quanto accade, si è interessati per forza di cose al susseguirsi adrenalinico degli eventi, dopo una parentesi neanche troppo ampia la visione della pellicola comincia inesorabilmente a farsi ripetitiva e meno scorrevole. Il meccanismo comincia a stancare e il coinvolgimento (quello più emotivo, non quello iniziale dettato più che altro dalla curiosità) continua a non rispondere all'appello.


Di ragioni obiettive, di limiti evidenti o di debolezze palesi nella sceneggiatura qui, tuttavia, non ce ne sono. Assume quanto mai come in questo caso importanza la dimensione soggettiva, il gusto personale, perché pur volendo trovare come al solito quegli aspetti meno riusciti – seppur in parte filtrati comunque da una certa soggettività - che giustifichino il non aver apprezzato la pellicola, in "Source Code" non si riesce ad individuarne alcuno. Lo script è solido, i dialoghi assai funzionali per il contesto filmico ricreato (non così accattivanti, ma neanche avrebbero dovuto esserlo, in questo caso. Le battute evitabili sono al termine due di numero), il ritmo resta elevato per l'intera durata e le interpretazioni sono sufficientemente convincenti (ottima quella della Farmiga). Più in generale la gestione tecnica da parte di Duncan Jones appare ineccepibile. Come un classico esercizio di stile privo di pathos, potrebbe dire qualcuno, ma non sarebbe in realtà intellettualmente onesto, perché il regista, come si scriveva in precedenza, cerca più volte di trasformare in empatia alcuni dei tasselli principali della sceneggiatura di Ripley.

L'unico dubbio che si ha durante la visione, l'unico che mette in discussione la solidità dell'intreccio, con conseguente freno emotivo, è l'eccessiva capacità di interagire con le persone, con gli ambienti e addirittura con quanto si trova all'esterno del treno. Sarebbe impossibile una cosa simile sulla base delle premesse iniziali che spiegano il Source Code. Ma neanche questo elemento si risolverà in una debolezza individuabile alla quale imputare la poca forza della pellicola, grazie ad una soluzione, quella finale, che rimette tutto in riga. Una trovata al tempo stesso evitabile, perché inutilmente buonista, banale e particolarmente indicata per l'esaustiva espressione “che palle”, e fondamentale, perché altrimenti l'intera pellicola sarebbe stata un enorme buco di sceneggiatura. 


Personalmente non consiglierei a nessuno il secondo lungometraggio del regista di “Moon”, ma l'unica motivazione che potrei addurre questa volta sarebbe un semplicissimo “perché a me non è piaciuto”.


mercoledì 7 marzo 2012

Sket


SKET (2011)





Regista: Nirpal Bhogal

Attori: Ashley Walters, Lily Loveless, Riann Steele

Paese: UK


Neanche il tanto amato, almeno da queste parti, cinema britannico degli ultimi anni è infallibile. Già lo aveva dimostrato “Kill List” (qui la recensione anche troppo buona di Ford), mostratosi in tutti i suoi limiti grossolanamente nascosti dietro un po' di violenza un tanto al chilo ed uno stile assai stucchevole. A rimarcare non solo la tesi ma tutto il processo dimostrativo è ora l'esordio di Bhogal, che riesce a fare anche peggio. Invero le similitudini tra le due pellicole denotano uno stile ben differente da quello normalmente elogiato in questa sede. Se quest'ultimo infatti si distingue per credibilità e realismo, pur non venendo mai meno la dimensione cinematografica, quello proposto da Wheatley prima e da Boghal poi per soluzioni registiche che sembrano, al contrario, voler in tutti i modi accattivarsi lo spettatore. Tendenzialmente videoclipparo, per intenderci. Però fatto male. E uno stile videoclipparo fatto male non si risolve semplicemente in un film brutto, ma il più volte delle volte anche parecchio irritante (e a scriverlo è uno a cui se usato con criterio non dispiace affatto). 


Le premesse per un film in pieno stile britannico in realtà c'erano tutte, considerando il soggetto. Ambientato nei sobborghi londinesi, racconta la storia di una ragazzina, Kayla (Aimee Kelly), trasferitasi da Newcastle con sua sorella. Quando quest'ultima viene uccisa con la più assoluta indifferenza dal capo di una banda, la ragazzina decide di vendicarsi, e per farlo si unisce ad una gang di ragazze.
Mi correggo, l'ambientazione era adatta ad un film britannico in piega regola, il soggetto nel suo complesso, invece, decisamente meno, tanto da far temere fin da subito risultati preoccupanti; risultati la cui realizzazione un sintomatico scambio nelle battute iniziali rende già più concreta:

- “My name is Kayla. Me friends call me Kay

- “My name is Shaks, my runners call me Shaks

Già.

La situazione nel prosieguo non cambierà molto. I dialoghi continueranno ad essere terribilmente scarsi, pur non reiterandosi invero frasi altrettanto simpatiche. La pochezza, infatti, continua per l'intera durata a regnare sovrana, portata in gloria dallo stile di cui si scriveva. Ed è proprio il tentativo di arruffianarsi lo spettatore con del fascino dozzinale uno dei principali limiti di “Sket”, non essendo affascinanti, zone simili, nemmeno a chilometri di distanza. Si veda “Fish Tank” per rendersene conto. Qui invece ci si spreca nel cercare di rendere in più di qualche sequenza la fotografia così caricata ed eccessiva che ogni volta nei dintorni sembra esserci un incendio, donando al tutto un posticcio tale da stridere in maniera palese con una realtà che di posticcio non ha nulla. 

Obiettivamente, non fa male agli occhi?
La sceneggiatura di certo non aiuta, tutt'al più contribuisce ad affossare ulteriormente l'esordio di Boghal. È davvero debole, tanto che anche con una gestione tecnica eccellente non sarebbe in tutta probabilità riuscita a comunicare molto. I personaggi sono stereotipati, a tratti urticanti, e considerando il fatto che le interpretazioni sono già di loro ben poco convincenti – tranne quella di Lily Loveless (“The Fades”) - non si dovrebbe fare molta fatica ad avere un'idea di quanto poco riescano i caratteri a comunicare. Allo stereotipo cede ovviamente l'intera sceneggiatura, non solo i personaggi, alternando parentesi che ci si ritrova a seguire domandandosi perché ancora lo si stia facendo. La risposta è sempre la stessa, ossia “dura appena 80 minuti, sta per finire”, e nel ripeterselo svariate volte finalmente finisce per davvero. Quando qualche secondo più tardi ci si ritrova a tirare le somme, ci si rende conto che a mancare sono finanche gli addendi.

Da non vedere assolutamente. O da dimenticare nel momento stesso in cui lo si sta guardando.

E quella locandina, poi...


martedì 6 marzo 2012

The Day He Arrives


THE DAY HE ARRIVES (2011)
(BOOK CHON BANG HYANG)




Regista: Sang-soo Hong

Attori: Jun-Sang Yu, Sang Jung Kim, Bo-kyung Kim

Paese: Corea del Sud


Dopo aver vinto appena un anno fa il primo premio nella sezione “Un Certain Regard” della più importante manifestazione cinematografica francese, il regista sudcoreano torna al Festival di Cannes con il suo ultimo lungometraggio. “The Day He Arrives” sembra non distaccarsi, almeno in termini tematici, dal precedente “Hahaha” ma non riesce come quest'ultimo ad imporsi. Racconta il ritorno a Seul di Sungjoon, regista alle prese con un blocco creativo. Racconta, nello specifico, i continui incontri che riempiono letteralmente la pellicola tra Sungjoon e i vari personaggi con cui si ritroverà a discutere della vita come di qualsiasi altro aspetto che in quel momento apparirà degno di essere approfondito. 


Si è usato poc'anzi il termine “riempire”. Sang-soo Hong non ha intenzione alcuna di costruire una pellicola dall'impianto narrativo chiaro e definito. Non ha, anzi, alcuna intenzione di puntare sulla narrazione. Non vi è una storia individuabile, né si preoccupa di suggerirne anche solo lontanamente uno scheletro. L'unico strumento sceneggiaturistico di cui si serve il regista coreano sono i dialoghi. Affida loro l'intera pellicola tanto da non servirsi quasi mai neanche di silenzi attraverso cui lasciare seppur temporaneamente l'aspetto comunicativo a sguardi e gesti. L'unico strumento a supporto degli stessi è quello tecnico. La regia, non a caso, è l'aspetto di gran lunga migliore della pellicola. I lunghi piani-sequenza di Hong si soffermano in maniera insistente sui protagonisti, non allontanandosi mai troppo dagli stessi, perché di fatto rappresentano, insieme ai loro scambi, non solo l'unico elemento di interesse, ma ancor più semplicemente l'unico elemento presente. Si concede tutt'al più centellinati zoom su uno dei volti inquadrati, quello che sta in quel momento dettando i ritmi dello scambio, ma torna poi alla distanza iniziale e ci resta per svariati altri minuti. I tempi registici sono quindi lenti e Hong fa in modo di adagiarli su una fotografia in questo senso simbiotica, con quel suo essere al tempo stesso confortante e malinconica. Il B/N conferisce infatti ad ogni immagine un tepore innegabile, rendendo meno fredda anche la neve che più volte sorprende i protagonisti. 


Il montaggio non lineare, allo stesso modo, punta solo ed unicamente sull'aspetto emozionale. Ad onor del vero essendo assente un impianto narrativo e, al netto della premessa iniziale, anche una storia, quasi non si potrebbe parlare di montaggio non cronologico. Ad essere irregolare e non fluida al punto che il tutto appare una serie di segmenti non comunicanti tra loro è infatti l'opera nel suo complesso. Non si scorge, al termine, alcun criterio attraverso cui ricostruire quanto visto, ma del resto l'obiettivo di Hong è in tutta probabilità esattamente questo. Ciò che a lui interessa raccontare e tramettere, è chiaro, è la dimensione sfocata e non lineare dei ricordi, delle emozioni, delle paure e delle incertezze. A tale scopo elimina tutto il resto e dedica ogni secondo del suo lungometraggio ai dialoghi e all'alternarsi di sequenze slegate da qualsiasi struttura. Unico punto di contatto i personaggi, che continuano a ripetersi confondendo ulteriormente uno spettatore che dal canto suo continua a cercare una chiave interpretativa che non c'è. 


Per riuscire nell'intento, tuttavia, di delineare un volto senza criterio di un'intera pellicola, di svuotarla quasi del tutto di ogni elemento diegetico e di trascinarla in una dimensione emozionale tale da far passare tutto il resto non in secondo ma in terzo piano, avvolgendo completamente chi è dall'altra parte dello schermo, è necessaria una forza in questo senso ben maggiore rispetto a quella proposta dal regista coreano. Benché affascinati dalle immagini e dalle atmosfere, queste ultime non sono mai potenti al punto di annichilire la risposta razionale a vantaggio di quella più puramente emotiva, col risultato che nonostante la breve durata “The Day He Arrives” comincia a stancare relativamente presto. I dialoghi, a loro volta, non aiutano di certo. Sono l'unico strumento comunicativo, si scriveva, di cui si serve il regista, ma ciononostante il loro spessore è sensibilmente sottile. Non si rendono mai interessanti fino in fondo e la sensazione al termine è che Hong abbia cercato di dire tutto senza dire niente, ed infatti contenutisticamente della pellicola non resta nulla.

Quello di Hong, però, non è certo un lungometraggio che può essere archiviato con superficialità. Resta comunque espressione di un cinema ricercato e capace di distinguersi, solo non riesce conferire la forza necessaria alle emozioni che sfiora e che di riflesso sfiorano lo spettatore. Si avvertono, ma mai in maniera sufficiente.


lunedì 5 marzo 2012

If A Tree Falls: A Story of the Earth Liberation Front


IF A TREE FALLS (2011)





Regista: Marshall Curry

Attori: Daniel McGowan

Paese: USA


Il documentario di Marshal Curry, non nuovo a questo linguaggio cinematografico al punto da essersi guadagnato con "If a Tree Falls" la seconda nomination all'oscar in sei anni, si concentra su quanto accaduto tra il 1995 e il 2001 in seguito all'inasprimento delle proteste del ELF (Earth Liberation Front). Del passaggio, nello specifico, dalle manifestazioni pacifiche alle azioni violente volte a sabotare con la forza (per lo più incendi) obiettivi strategici con lo scopo di creare un danno prettamente economico. Nel farlo l'occhio di Curry si concentra su uno dei membri, Daniel McGowen, che insieme al movimento ha sperimentato lo stesso passaggio.


Tra gli aspetti migliori della pellicola vi è senza dubbio alcuno la scelta di seguire il protagonista per un arco temporale abbastanza ampio da inquadrare alcuni degli snodi principali della vita appena precedente alla sentenza. Dalla sospensione degli arresti domiciliari agli sviluppi cruciali delle indagini. In tal modo Curry affianca all'inchiesta documentaristica dei fatti quella più intima e personale sul protagonista, mostrando fin da subito di volersi insinuare nelle motivazioni alla base delle sue scelte e di riflesso raccontarle. Del resto osservando un protagonista che è ben lungi dall'apparire un criminale diviene immediatamente chiaro che non è solo fanatismo o violenza un tanto al chilo, giustificata con argomentazioni deboli e tendenti all'inconsistente; al contrario prendono forma una sequenza alla volta motivazioni che al termine di certo non rendono le azioni del ELF pienamente giustificabili, ma per alcuni versi, magari, comprensibili. In quest'ottica Curry pone l'accento sul passaggio di cui si scriveva, raccontando ciò che dei manifestanti pacifici si ritrovano a subire: tra le altre cose, i mezzi ben poco ortodossi delle forze dell'ordine, che senza troppi ripensamenti tagliano i vestiti dei manifestanti e ricoprono le loro parti intime con spray urticanti, o che con la cura di un'estetista lo cospargono negli occhi dei manifestanti previamente immobilizzati; il tutto nell'assoluta indifferenza non verso di loro quanto verso le ragioni della loro protesta. Il regista sceglie intelligentemente di mettere in scena quanto appena scritto attraverso del materiale d'archivio che rende forte e fastidioso il quadro restituito. 


Nel ritrarre il volto apparentemente impopolare del suo documentario, essendo agli occhi di un pubblico disinteressato le azioni del ELF vandalismo o addirittura terrorismo, , il regista dedica attenzione alla frustrazione conseguente alla risposta distaccata e violenta dello Stato, che ha reso esponenziale la crescita della sensazione di impotenza il fattore scatenante il passaggio. Su questa base, poi, continua a costruire l'impianto giustificatorio e con interviste a gente estranea all'ELF, che pur non appoggiando quest'ultimo definiscono fin troppo radicale anche “il disboscare il 95% delle foreste”, e anche mettendo in discussione la scelta di condannare gli ex membri del ELF per terrorismo. Se sia appropriato tanto in termini lessicali quanto in termini legali. Continua quindi, Curry, a porre quesiti e a costringere ad interrogarsi sugli stessi rendendo il suo documentario da questo punto di vista assolutamente riuscito.

Se per certi versi “If a Tree Falls” risulta efficace, tuttavia, per altri non può propriamente dirsi tale. Curry, infatti, non riesce, se non per poche parentesi, ad avvicinare alla tematica smuovendo anche l'empatia di chi guarda; si segue interessati ma si sente poco il racconto, tanto che il peso dei quesiti affrontati sembra alleggerirsi già al termine della visione. Non resta quasi nulla se non la ricostruzione fedele di quanto accaduto in quegli anni, affidata alle interviste mai unilaterali del regista, che resta infatti per lo più nel mezzo. E forse, in parte, è proprio questo che rende poco forte il documentario, il non prendere una posizione, il non osare in tal senso.


In ogni caso, quello di Curry resta una finestra per nostra fortuna spalancata su una realtà di cui non ci si interessa e di cui quindi si sa molto poco, nascosta dietro un uso forse troppo semplicistico e comodo del termine “terrorismo”, utile a bollare come tale ogni azione ideologicamente sconveniente alla politica predominante. Del resto non sarebbe neanche necessario andare oltre i confini di questo stesso Paese per avere conferme di simili usi terminologici impropri.

Perfetti per il contesto i The National in chiusura: “Can we show a little discipline?”. 


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