mercoledì 30 novembre 2011

Recensione "The Turin Horse"

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THE TURIN HORSE (2011)




Regista: Béla Tarr

Attori: Volker Spengler, Erika Bok,
           János Derzsi, Mihály Kormos

Paese: Ungheria, Francia, Germania, Svizzera



Caustica e rassegnata la riflessione di Béla Tarr sull'uomo, a tratti venata d'odio perché rabbiosa nei confronti di un'umanità che ha portato se stessa al collasso morale. Un collasso totale e incontrovertibile. I suoi scenari sono desolati e deserti, fuori dal mondo e fuori dal tempo. Recinti per creature zombiane capaci di vivere solo all'ombra della propria meschinità; figlie di un'evoluzione sbagliata ma ormai registrata nel loro DNA. Geneticamente corrotta è infatti la bambina che tortura un gatto per molti dei 430 minuti di “Satantango”. Opera, quest'ultima, fuori dal comune, in cui lo sguardo del regista ungherese si fa anch'esso meschino. Delinea uomini avariati, così deboli da seguire un messia a caso, perché incapaci di scegliere da soli una direzione. Bestie da portare al pascolo, come quelle su cui si sofferma inizialmente la telecamera. Sette ore e mezza in cui sembrava aver detto tutto. Avrebbe potuto non girare più nulla e nessuno avrebbe proferito parola, nessuno avrebbe potuto. Cosa può aggiungersi ad un così immenso calvario emozionale, del resto, ad una visione così estrema e finale? Forse solo la reazione spietata e dolorosa di Béla Tarr, sanguinante e furiosa, calibrata e lucida. Quella di un uomo che non sopporta lo sfacelo al quale la specie a cui egli stesso appartiene l'ha condannato. La porta a termine in due pellicole che insieme a “Satantango” formano una trilogia ideale: “Le Armonie di Werckmeister” e “The Turin Horse”. Con la prima giudica una città intera, con la seconda l'umanità restante.


Nietzsche vide un cocchiere frustare ripetutamente e violentemente un cavallo che rifiutava di muoversi. Si gettò al collo dell'animale, in lacrime, non sopportando più la vista di quello spettacolo. Disse una frase: “Madre, sono uno stupido”. Cadde al suolo e collassò. L'ultimo episodio conosciuto della vita del filosofo diviene qui l'inizio della Fine. Nietzsche ne aveva sentito il respiro tra le frustate, l'aveva riconosciuta. Il cavallo ne respirava il marcio fetore ormai da tempo. Gli uomini invece non si accorsero di nulla.

I primi interminabili minuti sono per il cavallo. Tarr lo osserva nel suo lento e vano procedere, lo inquadra al punto di restituire quella che sembra rassegnata consapevolezza. Si trascina sulle note di “Horse” di Mihâly Vig che compone a sua volta l'inesorabile, donando al concetto una forma percepibile. Un corteo funebre che precede la morte. Lenta ed inesorabile è anche la telecamera, attraverso cui il regista ungherese si concede tutto il tempo necessario, come ha sempre fatto, per osservare con la calma di un carnefice la vita che prende consapevolezza della sua morte secondo dopo secondo.
Entra in casa ed osserva. In maniera morbosa ma nel contempo paziente. Non vuole perdersi un solo sguardo, un solo gesto di un cammino di cui però conosce la fine. Sembra voler osservare ogni singolo dettaglio di uno scenario architettato da tempo. Segue così la ridondate quotidianità di padre e figlia, seppur sempre con inquadrature diverse. La segue fino al punto di permettere di memorizzare i rumori e associare ad essi quanto accade fuori dal campo visivo, che sia il lasciarsi andare su una sedia o il soffiare su del cibo bollente. Per 90 minuti non accade nulla, se non l'avvicinarsi ai due protagonisti della Fine, che con un gelido bisbiglio suggerisce loro il suo arrivo: si accorgono che dopo 48 anni i tarli hanno smesso di farsi sentire. Come il cavallo ha smesso di camminare. A non fermasi è solo il vento; un vento incessante e impietoso di cui si avverte la presenza in ogni momento. Perché inquadrato, perché sentito, perché osservato dai protagonisti sulle note di “Horse”, che torna sistematicamente a scandire i ritmi come rintocchi funebri. 



La padronanza dello strumento filmico è incalcolabile. Dopo quei 90 minuti, un movimento del protagonista, uno sguardo diverso da quanto visto fino ad allora, una sola inquadratura è sufficiente a smuovere e a far vacillare chi osserva. È quell'agghiacciante “Ci siamo”. Chiunque da questo momento in poi avrebbe reso il ritmo più incalzante, Béla Tarr, al contrario, dopo la breve parentesi torna ad accomodarsi sugli stessi ritmi, torna ad osservare una routine che sfianca tutti, spettatori e protagonisti, tranne lui. Riscrive ogni volta le regola del cinema, non prima di averle infrante. Con i suoi tempi torna poi ad annullare le esistenze del cocchiere e della figlia, privandole dei loro sostegni. Il cavallo smette di mangiare e la già flebile speranza di poter lasciare quel luogo si assottiglia ulteriormente. Il pozzo si prosciuga di colpo e lo sconforto diviene terrore. Il vento inizia a soffiare più forte, a spazzare via tutto e il tentativo di lasciare l'abitazione, a piedi, si risolve nell'impossibilità di riuscirci. Lo sguardo del regista ungherese qui è devastante: li osserva dall'abitazione, in lontananza, brancolare nel nulla; per un attimo escono dal campo visivo ma la telecamera resta ferma, immobile, lì vicino all'abitazione, lì dove sa che saranno costretti a tornare. E così accade. Quello dell'uomo che si aggrappa ad una speranza resa vana dalla consapevolezza è da sempre un quadro sconfortante.
 

E al termine, l'apocalisse di Béla Tarr. Spietata, glaciale, silenziosa, terrificante. Il vento lascia il posto ad una calma raggelante, preludio ad un atto finale immenso. Un'apocalisse simile non si era mai vista. Così potente e disarmante, così immobile e inclemente. Non si era mai vista. La telecamera non ha intenzione alcuna di fare passi indietro. Insiste sulla speranza del cocchiere, vuole raccontarne l'ultimo barlume, vuole inquadrare l'istante in cui quel barlume si perderà nell'oscurità più nera. L'Oscurità. Ancestrale ed eterna. È il sesto giorno, Dio ha preso coscienza del suo errore e ne ha decretato la fine. Ha fallito, come quell'uomo creato a sua immagine e somiglianza.

Totale e definitivo.



È l'ultima opera di uno dei cineasti migliori mai esistiti e la sua filmografia non poteva concludersi in maniera migliore. È l'unico punto d'arrivo di una filosofia, la sua, che non poteva dirigersi altrove; un punto d'arrivo annunciato, come la fine di “The Turin Horse”. Questa volta davvero non potrebbe aggiungere più nulla, neanche un fotogramma. Dovrebbe sfondare la perfezione.


martedì 29 novembre 2011

Series Finale - Best 5

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La fine. La fine di un film, di un libro, di una serie, anche di una singola puntata o di una stagione intera. Personalmente è una delle cose che più adoro, perché punto d'arrivo e risoluzione di un racconto seguito per ore o per centinaia di pagine. Rappresenta il distacco da personaggi che si è imparato a conoscere nel tempo e ai quali ci si è avvicinati, siano essi stati affascinanti, irritanti, magnetici o meschini. Se ne conoscono, al termine, tutte le sfaccettature, tutti gli aspetti che ne delineano il volto. Si conoscono, allo stesso modo, tutte le parentesi che li hanno visti protagonisti nel tempo filmico per il quale li si è seguiti. Del resto sono personaggi che nascono e muoiono con il racconto di cui fanno parte, quindi si può tranquillamente affermare che li si conosce in maniera totale.
In quest'ottica il finale di quel racconto non può non essere esaustivo, appagante, emozionante e soprattutto coerente con quanto visto fino a quel momento. Non che un'opera sia solo la sua fine, ma quest'ultima è ciò a cui tende l'intero racconto, sia essa relativa all'intreccio o anche solo al percorso intrapreso dal personaggio. Quanto scritto assume un peso esponenzialmente maggiore nel caso di una serie che ha alle spalle più stagioni, che magari a loro volta contnoa un numero non indifferente di puntate. Ed è di questo che scrivo oggi, ossia delle conclusioni di alcune delle serie televisive che più ho apprezzato: i 5 migliori series finale che abbia mai visto.

5) The Wire


Il ritratto restituito dall'ultima sequenza è così rassegnato da far male. La serie nel suo insieme, intendiamoci, non ha mai mostrato barlumi di speranza anche perché è del crimine reale che parla. Tuttavia con la sequenza conclusiva la serie sembra gettare la spugna, non dando alternativa alcuna, positiva o negativa che sia, ai suoi protagonisti. Analiticamente chirurgica nella sua freddezza, come del resto tutta la serie. 

4) Six Feet Under


Non è tra le mie serie preferite in assoluto, in realtà. Chiaramente è fuori discussione la riuscita della stessa. È infatti una serie estremamente valida e non a caso sempre lì in giro tra quelle ad oggi ritenute le migliori (non me ne voglia la mia amica zombiana). Ciononostante questo terzo posto non glielo toglie nessuno. A far da discriminante, in questo senso, è la coerenza e con quanto proposto in precedenza e anche, e soprattutto, con il tema in sé. La serie creata da Ball si risolve nella leggerezza più malinconica e pesante di sempre. 6 minuti incantevoli.

3) Twin Peaks


No, sul serio. C'è da dire qualcosa al riguardo? È davvero necessario parlare di quanto allucinante, oltreché allucinato, sia il finale di “Twin Peaks”? È il caso di sottolineare l'ovvio scrivendo di quanto non solo sia in linea con l'atmosfera fuori dal mondo ricreata da Lynch, ma della capacità dello stesso di portarla su un livello ancor più alto e definitivo? C'è davvero bisogno di elogiare esplicitamente l'ultima sequenza? E ancora – e chi non ha visto Twin Peaks NON VADA AVANTI e non entri neanche più in questo blog – c'è bisogno di spiegare che quest'uomo al termine di tutto ha fatto trionfare il male, il cattivo di turno, dopo 2 stagioni intere? No, non ce n'è bisogno.

2) The Shield 

 
  
Non poteva finire in altra maniera. Nessun'altra conclusione sarebbe stata migliore. Sette stagioni strutturate per portare il personaggio al punto d'arrivo forse più lineare di sempre. E non solo rispetto alla storia ma anche alla gestione tecnica della serie. Un finale lungo una stagione. L'ultima infatti sembra un unico respiro, glaciale e spietato, senza speranze e a tratti disturbante. Tocca vette che solo la serie forse migliore in assoluto poteva toccare.

1) I Soprano

 

Enorme. Un finale tanto calzante quanto coraggioso. Terminare in quel modo una serie così seguita è impensabile, e non si riesce a capire come sia stato possibile che glielo abbiano lasciato fare. Pieno di riferimenti ad episodi e frasi di puntate precedenti, e proprio per questo ancora più coerente. Studiato nel dettaglio, misurato e gestito alla perfezione. Con una scelta musicale che non poteva essere differente nel suo rendere emozionanti e anche in questo caso definitive le ultime sequenze.


lunedì 28 novembre 2011

Recensione "Fish Tank"

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FISH TANK (2009)





Regista: Andrea Arnold

Attori: Michael Fassbender, Katie Jarvis, Kierston Wareing

Paese: UK



Andrea Arnold è colei che ha inaugurato l'iniziativa “The Advance Party”, promossa dai registi Gillian Berrie, Lone Scherfig e Anders Thomas Jensen (e in fase embrionale anche Lars Von Trier). Una trilogia la cui creazione deve sottostare ad una serie di regole da loro dettate – il Dogma è sempre lì da qualche parte – tra le quali quella di affidare la regia a tre diversi esordienti. Il primo lungometraggio è “Red Road”, che mostra la Arnold a suo agio nella gestione del mezzo, oltreché di ritmi e tempi. Film drammatico con una maschera thriller che inquadra gente in un modo o nell'altro ai confini della società. “Fish Tank” sembra raccogliere il testimone e seguire lo stesso percorso, alzando però il tiro e fotografando una periferia chiusa e senza speranze.

Quella raccontata, nello specifico, è una zona di Londra il cui volto è delineato da palazzine infinite, case popolari che ospitano stili di vita rarefatti e rassegnati. Come quello della famiglia di Mia (Katie Jarvis), 15 anni. Vive in uno dei tanti, identici appartamenti con la madre (Kierston Wareing) e con sua sorella più piccola. Balla, per passione e per necessità. A cercare un posto nelle loro vite è il nuovo compagno della madre, Connor (Michael Fassbender), che farà vacillare la routine di Mia e della sua famiglia.


Fish Tank” significa acquario, termine particolarmente indicato per la pellicola. Fin da subito l'intenzione della Arnold è palese: dare concretezza visiva ad una sensazione invero più volte affrontata sullo schermo, quella a metà tra l'asfissia e l'impotenza di una vita chiusa tra palazzine che sembrano recintare le vite al loro interno. Tema che si affianca con facilità allo stile asciutto e diretto del cinema britannico dell'ultimo periodo (si veda “London to Brighton”). É non a caso lo stesso stile, salve alcune parentesi comunque funzionali, proposto dalla Arnold.
Una delle prime sequenze introduce una metafora la cui destinazione appare chiara già dall'inizio, che quindi non vuol essere ricercata, né affascinare in modo particolare. È solo un ribadire un concetto, quello espresso nel paragrafo precedente, che verrà sottolineato varie altre volte durante la pellicola: un cavallo legato ad una catena; un'immagine che riflette l'esistenza di Mia, il suo essere imprigionata; un'immagine che agli occhi di quest'ultima appare insostenibile, tanto da tornare più volte sul posto nel tentativo di liberarlo.
È in questa sua esistenza che subentra Connor, una figura paterna per la sorellina e un compagno per la madre, attraverso cui la Arnold fa entrare uno spiraglio di luce nella vita di Mia. L'avvicinamento è inevitabile seppur velato dalle reazioni di una protagonista che cerca di mostrarsi eccessivamente forte ed indipendente ma che non può fare a meno di crollare dinanzi ad una figura a cui sembra importare un minimo di loro, di lei. Una sensazione del tutto nuova, probabilmente neanche presa in considerazione fino ad allora. La stessa madre, infatti, non mostra mai affetto alcuno, sembra non averlo mai fatto. Sembra, anzi, cercare di liberarsi di Mia, che così come il cavallo per quest'ultima, è la sua immagine riflessa; quella di un fallimento annunciato, di una donna che pur con due figlie organizza in casa feste in cui alcol e sesso, rozzi entrambi, appaiono come obiettivi primari, perché in grado di scacciare per qualche ora un fantasma quanto mai reale.

É un'atmosfera grigia, quindi, quella che colora la pellicola, inframezzata ogni tanto da parentesi di colore solo temporaneo, destinate anch'esse a perdersi in un grigio che si lascerà dietro il retrogusto amaro dell'illusione. La fotografia, allo stesso modo, alterna al realismo luci particolarmente calde e, come nel caso del ballo di Mia davanti a Connor, suggestive. Perfetta in questo senso la scelta di renderle molto calde, troppo, tanto da avvertire comunque una finzione destinata a risolversi anch'essa in ambiguità e disillusione. 


(si sconsiglia di andare avanti con la lettura se si vogliono evitare anticipazioni, benché la pellicola sia ben lontana da qualsivoglia colpo di scena)

Perché si comprenda più chiaramente l'assenza di speranze, il grigiore stantio e il rassegnato cinismo, è necessario tornare nuovamente sui personaggi. É proprio all'introspezione degli stessi che la regista affida il compito di sostenere l'intera pellicola, alle loro sfaccettature come alle loro debolezze. Alla figura materna descritta poco sopra si affianca quella di Connor, che a sua volta restituisce un quadro sensibilmente triste, metafora dell'atteggiamento di chi è all'esterno dell'acquario. Termine, quest'ultimo, che alla luce degli atteggiamenti del personaggio assume connotati nauseanti. Egli infatti sembra pescare all'interno delle palazzine donne e ragazze usando la speranza come esca; famiglie che possa viziare, in cui possa sentirsi importante, in cui passare un po' di tempo; un modo come un altro per cambiare temporaneamente aria, una sorta di vacanza dalla sua vita reale, agiata, con moglie e figlia, per poi, dopo aver usato non solo la madre di Mia ma anche quest'ultima, sparire. Metafora, si diceva. Sembra infatti la visione che l'esterno ha dell'acquario, ossia di vite ormai andate a male o, tutt'al più, usa e getta.
É una visione che la Arnold fa adottare anche a coloro i quali in quell'acquario ci vivono. La giovane protagonista, infatti, prende fin troppo a cuore quel cavallo, la cui fine rappresenterebbe nella metafora anche la sua. Non a caso l'unico pianto della ragazza si ha nel momento in cui gli viene comunicata la morte dell'animale (“Aveva 16 anni. Aveva vissuto la sua vita”). L'età non è chiaramente un caso e sembra una sorta di ultima chiamata per Mia, che decide infatti di andar via da Londra, in un finale che è il punto di arrivo di una pellicola per certi versi di formazione. Un finale, al tempo stesso, che vede l'unico momento di contatto tra madre e figlia: ballano l'una di fronte all'altra. Alle loro spalle, anche lei a tempo, la figlia più piccola. Tre fotografie di una stessa persona scattate in periodi di vita differenti. Un schema, però, dal quale Mia decide di tirasi fuori, con un'immagine conclusiva che delinea come unico scenario alternativo l'abbandono netto e definitivo di quell'acquario.


Una classica pellicola britannica, quindi, viscerale ed estremamente lucida. Pur non essendo originale riesce senza difficoltà, grazie anche ad interpretazioni convincenti, ad arrivare allo spettatore con uno sguardo al tempo stesso realistico e filmico.


domenica 27 novembre 2011

Santissima Trinità, parte 3: "The Big Bang Theory"

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THE BIG BANG THEORY (2007)





Creatori: Chuck Lorre, Bill Prady

Attori: Kaley Cuoco, Johnny Galecki, Jim Parsons, Simon Helberg, Kunal Nayyar

Paese: USA



Concludiamo l'analisi delle tre migliori sit-com in circolazione – sempre nell'ottica di scrive, chiaramente - con quella ideata da Lorre e Prady. È ora in onda la quinta stagione ed è difficile che si prospetti una fine in tempi brevi, considerando che lo share statunitense si assesta su livelli decisamente alti, tanto da essere superiori anche a quelli di "Modern Family" e "How I Met Your Mother", che, come ho già scritto in questa sede, in un'ottica d'insieme sono anche più riuscite.
Un dato utile per capire ed introdurre la caratteristica distintiva di BBT. Più volte infatti si è scritto quanto sia importante che una sit-com non si limiti a far ridere, tralasciando l'aspetto emotivo. Quella analizzata, tuttavia, l'aspetto emotivo non lo considera neanche lontanamente, non sembra preoccuparsene. In 5 stagioni non si sperimenta avvicinamento alcuno ai protagonisti; quello tra gli stessi e lo spettatore è un distacco netto e totale. Come anche tra lo spettatore e l'intreccio. Non si ha interesse nel prosieguo della storia, è irrilevante se e quando due personaggi torneranno insieme, le svolte lavorative di un altro, né le dinamiche, più in generale, che segnano la vita dei protagonisti. L'unico motivo per cui questi aspetti risultano interessanti è perché strettamente correlati a parentesi comiche. Tutta la sit-com, in realtà, è impostata in maniera tale da puntare unicamente sulla comicità. A partire da storia e personaggi.

Due nerd, Sheldon (Jim Parsons) e Leonard (Johnny Galecki), coinquilini. Estremamente capaci nel loro campo e non a caso realizzati in ambito lavorativo. Come è giusto che sia, però, questa loro capacità si contrappone all'assoluta incapacità di interagire col sesso femminile e con la vita al di fuori delle loro quattro mura. La classica bionda, bella ma ignorante, Penny (Kaley Cuoco) si trasferisce nell'appartamento affianco a quello dei due nerd, generando difficoltà comunicativo-comportamentali non indifferenti. Ai due nerd, inoltre, se ne aggiungono altri due, Howard (Simon Helberg) e Raj (Kunal Nayyar).


É chiaro abbastanza, dando un'occhiata alla trama, e ancor di più dopo aver conosciuto singolarmente i vari personaggi, quanto si scriveva poco sopra, ossia quell'impostazione principalmente indirizzata alla ricerca della gag. L'atipicità della serie sta proprio nel fatto di essere comunque tra le migliori pur non rispettando quanto ripetuto praticamente in ogni post sulle sit-com scritto fino ad ora, ossia il cercare anche un livello seppur minimo di coinvolgimento. La spiegazione è in realtà semplice: il livello di comicità è davvero notevole, a tratti geniale, tanto da essere in grado di sostenere l'intero prodotto senza difficoltà, o quasi. Sì perché nel momento in cui quella comicità non è efficace o non al pari dei livelli standard proposti, la singola puntata si setta su livelli assai poco convincenti, non avendo nient'altro da offrire. Da considerare, in tal senso, anche il fatto che dopo più stagioni alcune linee tipiche di un personaggio divengono prassi e non divertono più quanto prima. Strappano al massimo qualche sorriso, e alla quinta stagione neanche quello (un esempio su tutti, gli urli animaleschi della madre di Howard).
Anche le situazioni in cui si ritrovano i protagonisti sono nella maggior parte dei casi assolutamente classiche, quindi non divertenti in sé, come accade in altri prodotti. Tutta la comicità, in sostanza, è pertanto affidata ai dialoghi e alle caratteristiche di personaggi ben delineati nel loro differenziarsi. Tuttavia ci si ritrova anche in questo caso a dover operare un'ulteriore scrematura al fine di individuare cosa realmente funzioni, cosa realmente risulti divertente. Personaggi come Leonard, Howard, Raj e Penny, infatti, raramente riescono a generare linee e parentesi di un livello pari a quello descritto in precedenza, ossia quello che rende la serie così riuscita. Anche nel loro caso non può, infatti, non considerarsi il fattore tempo. Se inizialmente divertono, seppur moderatamente – al netto di parentesi ben più riuscite se prese singolarmente – già alla seconda stagione la loro comicità non è più sufficiente perché ripetitiva. È quanto accade, del resto, anche con i personaggi introdotti nelle stagioni successive e diventati poi parte integrante del cast, ossia Bernadette (Melissa Rauch) ed Amy (Mayim Bialik). Quest'ultima, in particolare, è identica a Sheldon, fatte salve alcune differenze, e la sua presenza risulta spesso ridondante.


La punta diamante di BBT, ciò che rappresenta un buon 70% della stessa, è Sheldon Cooper, splendidamente interpretato da Parsons. Un fisico teorico affetto dalla Sindrome di Asperger, geniale ma incapace di comprendere dinamiche sentimentali ed emozionali. Questo presupposto genera una potenzialità comica enorme, tanto da trascinare, si scriveva, l'intera puntata. Arrogante, privo di tatto, molesto e fastidioso pur senza rendersi conto fino in fondo di esserlo. Coltiva passioni smisurate – altro aspetto tipico della sindrome da cui è affetto – verso cose apparentemente prive di fascino, come i treni - non è un caso che una delle puntate migliori veda appunto Sheldon in un treno. Vanta uno spettro invidiabile di fobie, smisurate per definizione, e si distingue anche per il suo essere mammone: un uomo che comprende l'universo e le sue dinamiche entra in crisi per un'influenza, al punto di dover chiamare la madre (altro personaggio riuscito) perché lo accudisca; ne riconosce l'autorità tanto da essere sgridato come si sgrida un bimbo di 5 anni. I dialoghi migliori sono ovviamente affidati a lui, che mischia nozioni di fisica con dinamiche di vita reale, spiegando queste ultime con le prime e dando vita a scambi singolari e spesso geniali. E poi storture comportamentali di ogni tipo che contribuiscono a dare sostanza ad ogni episodio.


Se BBT avesse puntato anche su altro sarebbe probabilmente stata di un livello ancora superiore. O potrebbe essere vero anche il contrario, ossia che la comicità della stessa avrebbe lasciato parte del suo spazio ad altro, quindi è bene non rischiare e tenercela così com'è, considerando il fatto che quando l'episodio riesce, il livello di comicità, per l'appunto, è altissimo.


venerdì 25 novembre 2011

Santissima Trinità, parte 2: "How I Met Your Mother"

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HOW I MET YOUR MOTHER (2005)




Ideatore: Carter Bays, Craig Thomas

Attori: Josh Radnor, Jason Segel, Cobie Smulders, 
            Neil Patrick Harris, Alyson Hannigan

Paese: USA



How I Met Your Mother”, è bene specificarlo fin da subito, è ciò che ha portato la situation-comedy su altri livelli. Inizia nel 2005 e si impone immediatamente, prima con un aspetto comico francamente irresistibile e poi con una capacità di creare empatia neanche sfiorata da altre sit-com. Ha proposto qualcosa di così riuscito da far sentire autorizzati a pretendere da un prodotto televisivo di questo tipo risultati ben maggiori. Tante le sit-com sviluppatesi in maniera parallela, o quasi, ad essa ma nessuna, è parere di chi scrive, è mai riuscita neanche solo a minare il primato di HIMYM. E le stagioni sono 7, non due. E ogni stagione ha in media 22 puntante. Sono più di 150 episodi e al di là di qualche comprensibile calo – ma bisognerebbe ridimensionare il termine in questo caso, e di molto – il livello resta alto. Continua anzi, di tanto in tanto, a sfornare puntate memorabili, roba che non ci si aspetta di certo dopo intere stagioni in cui gli sceneggiatori hanno sviscerato storia, comicità e personaggi.


La storia. È classica, ovviamente, niente di particolare. Un padre, Ted Mosby (Josh Radnor), che racconta ai propri figli la storia di come ha conosciuto la loro madre, ripercorrendo il tempo passato con i suoi amici di sempre. Ogni puntata è impostata come un flashback e racconta avvenimenti del tutto distanti, è chiaro, dall'incontro tra Ted e la donna della sua vita; riguardano invece un gruppo di amici che si ritrovano in situazioni di vita per l'appunto classiche.
È proprio il modo di raccontare quelle situazioni a rendere così valida la serie. Vengono intrecciate in maniera sistematica, fino a sfumare perfettamente l'una nell'altra, comicità e spessore introspettivo. Non si può fare a meno di avvicinarsi ai personaggi e provare un coinvolgimento emotivo quasi impossibile per una sit-com. Dopo averla seguita per sette stagioni si ha, guardando indietro, la sensazione di conoscere i personaggi come si conosce un vecchio amico. Ogni puntata, infatti, non solo è un flashback, ma trasmette la sensazione di un flashback. Quella di un ricordo rivangato davanti ad una birra, magari nel solito bar, come quello in cui si ritrovano i protagonisti. E nel momento in cui i ricordi si accumulano la sensazione di conoscere a fondo loro e la loro vita è inevitabile, così come l'empatia di cui sopra come diretta conseguenza.
Racconti stracolmi di aneddoti, sempre nuovi ma mai distanti da quelli passati. Gli sceneggiatori mostrano una maestria impeccabile nel richiamare parentesi di puntate precedenti per poi mischiarle con situazioni nuove - lo “Slapsgiving”, per esempio, è meraviglioso. Il risultato in termini di continuità è enorme e ogni volta non ci si ritrova davanti semplicemente un altro episodio, ma un altro capitolo della vita dei protagonisti. Ed è proprio della vita, si diceva, che si parla, quella di tutti i giorni, fatta di speranze, delusioni, amicizia, cambi di rotta, porte chiuse definitivamente e porte riaperte, amori, tradimenti, errori e rimpianti. Vengono affrontati in maniera per niente superficiale ma sempre leggera. È il dualismo di cui si scriveva, che non viene mai meno. Come non viene mai meno quel continuum emotivo che permette, sul lungo periodo, di riconoscere e comprendere reazioni e atteggiamenti.


E poi però c'è l'aspetto comico. HIMYM diverte come poche sit-com riescono a fare. Sfrutta, in questo senso, tutto ciò che può sfruttare. Dagli aneddoti gonfiati ai dialoghi, dalle linee ricorrenti alle sfaccettature dei singoli personaggi. Quest'ultimi rappresentano ovviamente, come in ogni sit-com, il nucleo dell'intero prodotto. Studiati e delineati alla perfezione, fra loro differenti e riconoscibili, generano parentesi e scambi meravigliosi. Nessuno viene scavalcato da nessuno, ogni personaggio ha il suo spazio, essendo ben calibrata la loro presenza sullo schermo e nella storia. Ad essere ben gestiti, inoltre, sono le interazioni tra comicità completamente differenti: quella di Robin (Cobie Smulders), indipendente ma non troppo, terrorizzata dagli impegni sentimentali, canadese e amante delle armi; quella di Marshall (Jason Segel) e Lily (Alyson Hannigan), insieme praticamente da sempre, completamente in sintonia, più tradizionali ma bambinoni, e da sempre amici di Ted; quella di Ted, appunto, sognatore e tradizionalista al punto da far apparire Lily e Marshall del tutto fuori dal comune, in cerca della classica favola con annessa anima gemella. E Barney Stinson (Neil Patrick Harris), esageratamente divertente. Ad oggi, insieme a Sheldon Cooper (“The Big Bang Theory”), il personaggio più riuscito di sempre, in ambito sit-com e comicità. Un latin lover sopra le righe, egocentrico e narcisista, calcolatore e quanto meno fantasioso nell'architettare piani per raggiungere i suoi obiettivi (nel 90% dei casi consistenti nel portarsi a letto una donna). Basti pensare che una puntata intera, peraltro una delle migliori, è dedicata alle più astruse tecniche di conquista da lui inventate: “The Playbook”.
Non è solo il suo personaggio, tuttavia, ad essere esagerato. Anche gli altri, così come gli aneddoti raccontati, lo sono colorando ogni puntata di una comicità che rasenta il surreale. Come in “The Fronch Port”, per esempio, episodio in cui le varie comicità si intrecciano magnificamente e la cui ascesa al climax rende un'impresa smettere di ridere.
Fondamentali, in questo senso, anche le interpretazioni. Le prove degli attori, tutti, sono inattaccabili – l'unico che sembra convincere meno è forse proprio Josh Radnor ma con l'andare delle stagioni questa sensazione svanisce – così come la direzione degli stessi. Sono così affiatati, ormai, che i bloopers riescono a divertire quanto le puntate. “True story”, per dirla con Barney.


Una sit-com riuscita sotto tutti gli aspetti, insomma, che, riuscendo a proporre un livello simile dopo 7 stagioni, sembra inarrestabile. Ed è un bene che sia così, dato che non c'è voglia alcuna di farne a meno. È parere di scrive, penso si sia capito, che sia la migliore in circolazione e non darle una possibilità sarebbe una cosa notevolmente stupida.

(Da vedere necessariamente in lingua)


giovedì 24 novembre 2011

"Another Earth"

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ANOTHER EARTH (2011)





Regista: Mike Cahill

Attori: Brit Marling, William Mapother

Paese: USA



La sezione “commenti” verrà dedicata a quelle pellicole di cui non scriverò un'analisi particolarmente approfondita, o per questioni di tempo o perché la pellicola non ha molto da dire. Sarebbe quindi inutile, nel secondo caso, allungare il brodo e trascinarvi in un elenco di aspetti negativi comuni a molti altri film e non degni di nota, pur nella loro negatività. Perché, al contrario, molti altri film comunque non riusciti meritano ugualmente una recensione; magari è una pellicola per certi versi importante che non si può liquidare con due parole; magari è così stupida che scriverne una recensione può risultare divertente.

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Ad inaugurare la sezione è “Another Earth”, pellicola diretta da Mike Cahill - a cui bisogna voler bene anche solo per il fatto di aver contribuito (come online editor) alla creazione dell'incantevole documentario “Leonard Cohen: I'm Your Man”. Quella raccontata è la storia di una ragazza, Rhoda (Brit Marling, co-sceneggiatrice), che torna in libertà dopo aver scontato, per omicidio colposo, una pena di 4 anni. Decide, a suo modo, di entrare in contatto con l'unica vittima sopravvissuta dell'incidente stradale da lei provocato. Sullo sfondo l'avvicinarsi di un altro pianeta, identico alla Terra.


L'aspetto in assoluto più interessante di “Another Earth” è quella fantascienza di cornice che sembra si stia imponendo nell'ultimo periodo. Quella fantascienza che fa da sfondo ad un intreccio assolutamente umano e il cui ruolo è pressoché passivo. Lo ha fatto Von Trier con “Melancholia”, il nostro cinema con “L'ultimo Terrestre” di Pacinotti e, per l'appunto, Cahill. È parere di chi scrive che sia una scelta in potenza assai affascinante, perché conferisce ad una storia altrimenti classica un'atmosfera irreale, capace di elevare il racconto e dargli apparentemente un peso maggiore, quasi fossero, le relative riflessioni, più profonde. La pellicola in questione, infatti, non sarebbe stata affatto degna di nota senza quest'aspetto. Sarebbe stata anonima e banale. Non a caso la storia, singolarmente presa, lo è comunque e rappresenta il limite maggiore del film, un limite insormontabile che ne compromette la riuscita. Più di una scelta appare forzata e scontata e i personaggi troppo stereotipati. L'incapacità di creare empatia, poi, non aiuta affatto.

Volutamente artificiale, la fotografia vira verso tonalità blu, conseguenza della vicinanza dell'altra Terra, e assume un ruolo fondamentale nella resa di quella necessaria atmosfera. Si confà al ritmo lento e contemplativo proposto da Cahill e colora una sequenza conclusiva davvero ottima - e che si chiude, a sua volta, anche meglio – capace di proporre una riflessione decisamente funzionale ai fini del racconto e, diciamocelo, anche un po' confortante.


mercoledì 23 novembre 2011

Recensione "Hesher"

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HESHER (2010)




Regista: Spencer Susser

Attori: Joseph Gordon-Levitt, Natalie Portman, 
           Devin Brochu, Rainn Wilson, Piper Laurie

Paese: USA



Un bambino in bici intento a rincorrere una macchina trasportata. Evidentemente coinvolta in un incidente stradale. Altrettanto evidente il legame tra la stessa e il bambino, T.J., che la rincorre senza mai guardare altrove. La raggiunge, si siede all'interno, in lacrime. Capire cosa sia successo non richiede molto impegno e in un attimo ci si trova ad empatizzare con il giovane protagonista, predisponendosi a quello che sembra un racconto drammatico.
Qualche attimo dopo la telecamera torna a seguire T.J., nuovamente in bici. Tra una stradina e l'altra passa affianco ad una casa semidistrutta, abbandonata; nel mentre la ruota anteriore si blocca e T.J. cade rovinosamente. Si rialza e per rabbia tira un sasso alle vetrate già per metà distrutte della casa. Fa per rimettersi sulla bici e dietro di lui spunta un ragazzo senza maglietta, con tatuaggi grossolani e capelli lunghi. Afferra il bambino, lo trascina in casa ma prima di potergli fare qualsiasi cosa viene distratto da una volante. Con la tranquillità più invidiabile di sempre, accende un candelotto, lo lancia verso il poliziotto e se ne va. Questo simpatico personaggio è Hesher.


Il dualismo tra le due sequenze appena descritte è lo stesso che la pellicola cercherà di rispettare e proporre per tutta la sua durata. Cambi di registro sistematici che rendano la stessa in grado di far convivere drammaticità e comicità. Susser punta ad una sorta di black-comedy che gli permetta, come molti prima di lui, di affrontare una parentesi difficile, la perdita di una moglie o di un genitore, nonché l'elaborazione di quel lutto, con misurata leggerezza.
Non è propriamente semplice riuscirci, in realtà, specie per un regista alle prese con il suo primo lungometraggio. Sfumare il dramma nell'ironia e viceversa richiede infatti una padronanza dei registri narrativi e dei relativi cambi tendenzialmente impeccabile, essendo gli oggetti di quella sfumatura agli antipodi. Il regista statunitense ci prova ugualmente e sembra anche riuscirci, se non fino al momento in cui perde le redini della pellicola e si concentra sull'unica cosa che avrebbe potuto condurla al termine: Hesher, ovviamente.

Invero è una sensazione, più un timore, che si ha fin dall'inizio. L'entrata in scena del personaggio e le sequenze che lo vedono protagonista di lì a poco sono decisamente riuscite, al punto che la partenza in quinta delinea la possibilità che la pellicola non riesca a restare su livelli simili per tutta la sua durata. È uno scenario classico. Iniziare dall'alto si traduce nel settare il livello base della pellicola, nell'ottica dello spettatore, esattamente a quell'altezza. Se non si è grado se non di salire, almeno di non scendere sotto quel livello la curva sarà inevitabilmente in discesa e il tutto al termine sembrerà debole. È ciò che accade con “Hesher”.
È vero anche, tuttavia, che Susser quel livello riesce a tenerlo per un tempo notevole. Gestisce (sfrutta) alla perfezione Hesher e la sua convivenza - forzata, per volontà di quest'ultimo – con T.J. , suo padre, entrambi segnati visibilmente dal lutto e dall'incapacità di gestirlo, e la nonna. Crea più di una situazione sensibilmente grottesca attraverso lo scontro tra una personalità fuori di testa e apparentemente non interessata a chi gli sta intorno, al punto di risultare scontroso e inavvicinabile, e la sofferenza palpabile presente nella casa in cui ha deciso di vivere. Conseguenza diretta è una serie di parentesi particolarmente riuscite che portano più volte ad accarezzare l'ipotesi che salvi eventuali cali "Hesher" possa rivelarsi una tra le commedie più riuscite degli ultimi anni.
A diventare realtà, però, non è l'ipotesi ma il calo. Là dove Susser è chiamato ad andare più a fondo, a dare più spessore all'aspetto drammatico, inizia al contrario a mostrare evidenti difficoltà. Tra scelte a volte banali, quando prima non lo erano mai state, ed un'evoluzione troppo superficiale di storia e personaggi, la pellicola resta ancorata ad un immobilismo che vive all'ombra di una prima parte ben più riuscita. E all'ombra di Hesher.

  
Non sorprende, a fine visione, che il suo nome sia anche il titolo della pellicola. Hesher, infatti, è il film. Un headbanger irresistibile che sbuca in ogni dove. Non si sa quanti anni abbia, né da dove provenga. Scontroso, squilibrato, violento e scurrile. Ma anche altruista e capace di legarsi a qualcuno, seppur a suo modo (e “a suo modo” non ha mai avuto una valenza simile). Devasta la rassegnazione autodistruttiva di padre e figlio, costringendoli a smuoversi dal torpore. Un folle necessario, insomma, che comunica in modi quanto meno singolari – l'ultimo discorso è una meraviglia. Lo interpreta un attore che era bravo già 14 anni fa, quando interpretava Tommy Solomon in “30rd Rock From The Sun”. Quella di Joseph Gordon-Levitt, infatti, è un'interpretazione perfetta. Hesher è suo dopo appena il primo passo verso T.J., nella scena descritta inizialmente. Il risultato è un personaggio fuori dal mondo e genuinamente divertente, capace di caricare l'intero film sul suo furgoncino nero e malandato, mosso da Metallica e Motorhead, e condurlo integro, o quasi, fino alle ultime sequenze:

Hesher was here”.


martedì 22 novembre 2011

Santissima Trinità, parte 1: "Modern Family"

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MODERN FAMILY (2009)




Ideatori: Christopher Lloyd e Steven Levitan

Attori: Ed O'Neill, Sofía Vergara, Julie Bowen, Ty Burrell, 
             Jesse Tyler Ferguson, Eric Stonestreet

Paese: USA



La santissima trinità delle sit-com, ne abbiamo già parlato: “How I Met Your Mother”, “Modern Family” e “The Big Bang Theory”, in ordine di importanza. MF, infatti, ha a mio avviso scavalcato BBT per le ragioni scritte nel post dedicato ad “Arrested Development”. Al contrario delle altre due a BBT manca l'intenzione di avvicinare quanto raccontato ai personaggi, seppur in maniera “superficiale” e “semplice”. Le virgolette sono d'obbligo, chiaramente, dato che avvicinare con a disposizione solo 20 minuti a settimana lo spettatore ad un prodotto leggero ed ironico per definizione non è affatto semplice. Il riuscire o meno a farlo rappresenta una discriminante da cui non si può prescindere nella valutazione di una situation comedy. BBT è un caso a parte; pur non riuscendoci ha delle linee comiche così forti ed originali da imporsi ugualmente, anche se non su prodotti che oltre ad una linea comica riuscita hanno dalla loro anche quella lieve empatia verso storia e personaggi di cui si scrive. 


Moden Family” è stata una rivelazione. Non avrei scommesso un centesimo su di essa e non a caso pur ritrovandomela in rete un giorno si e l'altro pure non pensavo neanche lontanamente alla possibilità di darle un'occhiata. Non sembrava particolarmente accattivante, l'idea non così originale e francamente non rientrante in quelli che generalmente sono i miei gusti: una famiglia allargata fino ad 11 componenti: Phil e Claire Dunphy con i loro tre figli; Mitchell e Cameron, coppia gay con una bambina vietnamita adottata; Jay (padre di Claire e Mitchell) e Gloria, con il figlio (di lei) Manny. Poi mi è stata insistentemente consigliata e ho provato a darle quell'occhiata di cui sopra. Un'occhiata rivelatasi fulminante perché “Modern Family” è semplicemente stupenda. 

Il solo riuscire a gestire così tanti personaggi la rende degna di nota. È già un'impresa farli convivere, far convivere le loro comicità e ancor prima renderli comici. Inventare, quindi, 11 comicità diverse, nonché 11 personalità credibili. Figuriamoci farli muovere, poi, in un tempo ristretto e addirittura riuscire nell'intento di non far ridere e basta, ma di inserire quelle riflessioni affettuosamente sciocche attraverso cui parlare della vita in maniera estremamente leggera. Lloyd e Levitan non solo riescono a farlo, ma riescono a farlo decisamente bene. Mai nessun personaggio è troppo in ombra, gli aspetti comici non sono ridondanti, se non per scelta, e le personalità non si sovrappongono perché tutte diverse e ben definite.
A rendere ulteriormente divertente il prodotto la scelta del mockumentary, impostasi negli ultimi anni nel cinema come nella tv. I genitori delle tre famiglie si ritrovano durante la puntata a spiegare i loro atteggiamenti davanti alla telecamera, a mo' di intervista e l'aspetto paradossale è che queste sequenze sono in assoluto tra le più divertenti. Le singole personalità, infatti, non solo non si spogliano di quella comicità magari legata all'avvenimento in sé, quella del momento, ma davanti alla telecamera vengono addirittura accentuate, perché accentuati a loro volta problemi, differenze e difetti nella e della coppia - si tenga conto, volendo fare un esempio, che Gloria è una donna colombiana esageratamente sensuale e che Jay è invece un uomo con figli già adulti e decisamente americano. La scena qui in basso dovrebbe far capire a cosa ci si riferisce.


È necessario, si scriveva, che non vi siano personaggi in ombra o comunque troppo defilati, sì da evitare di minare quell'equilibrio su cui una sit-com di questo tipo ha bisogno di reggersi. Ciò, tuttavia, non significa che non vi siano personaggi che si distinguono maggiormente, sarebbe impossibile. Personaggi che diventano, di fatto, il volto della serie. Nel caso in specie a ricoprire il ruolo sono senza dubbio Cameron e Phil.
Cameron (Eric Stonestreet) è una meraviglia già solo per la sua fisicità da ragazzo allevato in campagna. Un omone che se ne va in giro con camicie floreali ora color rosa, ora viola, magari gialle o sul celestino andante. Un uomo che rivendica con forza e vanto le sua educazione bucolica tra trattori e pecore che però disquisisce di personaggi maschili affascinanti nel cinema con altri amici gay. Un uomo passionale al punto di divertire ogni volta che appare sullo schermo; tanto passionale da innervosirsi come MAI nella serie per non essere stato coinvolto dal suo uomo in un flash mob. Cioè, un flash mob. Uno spasso. Davvero non può apparire sullo schermo senza far ridere.
E poi c'è lui. Il Barney Stinson (o lo Sheldon) di “Modern Family”. Phil Dunphy (Ty Burrell) è uno dei personaggi più divertenti di sempre. È anche il primo, però, a non risultare tale fin da subito. La sua comicità non è data tanto dalla sua idiozia, infatti, quanto da piccoli particolari che rendono solo in un secondo momento quell'idiozia irresistibile. Sono gli sguardi, ha degli sguardi assurdi. Nelle finte interviste non lascia una espressione senza adottarne un'altra ancora più stupida della precedente. Burrel è strepitoso nell'interpretare il personaggio. Dopo averlo imparato a conoscere, è sufficiente che si aggiri per la casa, perché si rida, magari anche inspiegabilmente. Si sa, infatti, che di lì a breve farà un'idiozia. E puntualmente la fa. Un macchina comica impressionante.

Anche gli altri personaggi, è bene precisarlo, sono eufemisticamente riusciti ed interpretati perfettamente. Da Claire (Julie Bowen), insicura e maniaca del controllo, a Gloria (Sofia Vergara), apparentemente ingenua, legata a discutibili tradizioni colombiane e dall'accento, oltreché dal timbro, più ridicolo in circolazione; da Jay (Ed O'Neill), alle prese con la differenza tra la sua età e quella della compagna, ruvido ma non troppo, a suo figlio Mitchell (Jesse Tyler Ferguson), a sua volta alle prese con il controllo, oltreché con i traumi da gay in fasce. Non sono da meno i 4 figli, anche loro ottimamente caratterizzati. 


Se ancora non l'avete vista, magari per dubbi simili ai miei, non mostratevi idioti come Phil e procuratevela all'istante.


lunedì 21 novembre 2011

Recensione "Womb"

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WOMB (2010)




Regista: Benedek Fliegauf

Attori: Eva Green, Matt smith

Paese: Germania, Ungheria, Francia



Il cinema ungherese sembra voler affiancarsi a quelli che nell'ultimo periodo, in Europa, stanno proponendo pellicole particolarmente capaci di distinguersi. Quello danese post Dogma95, ormai da tempo alla ricerca di una propria identità, ha partorito, e continua a farlo, pellicole di indubbia qualità, riconoscibili e potenti. In Inghilterra si è imposta una sorta di new wave scarna ma assolutamente viscerale. Allo stesso modo l'Ungheria si sta distinguendo con un cinema, benché in embrione e quindi non prolifico quanto gli esempi appena citati, se non altro diverso. Ci si riferisce a Gyorgy Palfi e Benedek Fliegauf, per non citare Béla Tarr, uno dei cineasti migliori del nostro tempo. Se Palfi punta sul grottesco – vedi “Hukkle” e “Taxidermia”. L'ultimo lungometraggio appare decisamente meno riuscito - Fliegauf guarda all'estetica e ai tempi. Quest'ultimo prima di “Womb” ha girato “Tejùt – Milky Way”, in cui già delineava i tratti succitati del suo cinema. Tuttavia la spinta verso proposte sperimentali era evidente, forse troppo, tanto che "Tejùt", afono, appare davvero restìo a risultare fruibile: una successione di sequenze con telecamera fissa e apparentemente prive di collegamenti tra le stesse, se non generali e non così degni di nota. Fotografie in movimento che, però, mostrano una capacità tecnica ed un gusto estetico senza dubbio notevoli, tanto da domandarsi quale sarebbe il risultato della traduzione di questi suoi tratti in un cinema più convenzionale. A questa domanda Fliegauf risponde tre anni più tardi appunto con “Womb”.


Per questo suo primo lungometraggio in lingua inglese, Fliegauf opta per uno scenario che si confà in maniera particolare agli aspetti distintivi del suo cinema. É, infatti, in zone nordiche ricoperte di neve e calma serafica che si muovono i personaggi raccontati; zone in cui la presenza umana sembra centellinata, le case distanti l'una dall'altra, le spiagge immense e semi-deserte; zone così contemplative e lontane che appaiono quasi surreali. Il regista ungherese le fa sue dopo appena qualche inquadratura, fotografandole e valorizzandole alla perfezione. Si spinge oltre, poi, confinando il racconto in un'unica location: una baita in riva al mare, su una spiaggia del tutto deserta, interminabile, fotografata tanto divinamente da sembrare priva di confini. Qui l'estetica del cinema di Fliegauf raggiunge la sua massima capacità espressiva, siano le riprese esterne o interne. La regia lucida e calcolata valorizza la resa anche degli ambienti interni, infatti, che divengono funzionali ed imprescindibili per gli obiettivi della pellicola. I personaggi vivono in un guscio impermeabile alla realtà, quindi non costretti a rendere conto alla stessa di una situazione, la loro, che altrimenti verrebbe inevitabilmente a sgretolarsi. Una situazione la cui esistenza è subordinata a quel guscio e che in esso, però, sembra paradossalmente non repellere. O almeno non quanto dovrebbe.

Quella raccontata è una storia già di per sé malsana e difficile da accettare. Una giovane donna, Rebecca (Eva Green), legata ad una persona attesa per anni, l'unica a cui, sembra, abbia mai dedicato se stessa e il suo amore, Thomas (Matt Smith). Lo cerca e lo ritrova, rientra immediatamente in sintonia con lui. Thomas, dal canto suo, sembra aver percorso la stessa strada. Egli, tuttavia, morirà di lì a poco stracciando la favola e privando Rebecca di quella che si era ormai imposta come unica ragione della sua vita, al punto che deciderà di clonare Thomas, facendolo crescere nel suo stesso grembo.


La realtà della pellicola è quindi futuristica benché identica a quella attuale. Ricorda infatti “Never Let me Go”, pellicola assai notevole diretta da Romanek nel 2010. Se la distopia in cui è ambientata quest'ultima è definita e definitiva, tuttavia, quella di Fliegauf è embrionale. Appare come una potenziale tappa ultima alla quale potrebbe tendere una debolezza umana capace solo di guardarsi indietro. Sono pochi, non a caso, i cloni nella pellicola; solo un'altra c.d. “copia” oltre al protagonista. Sarà questo che porterà allo scenario isolato di cui si scriveva. La trama, quindi, contribuisce in maniera imprescindibile a quell'aspetto surreale che plasma il volto della pellicola fino a renderlo riconoscibile. Gli conferisce quell'identità necessaria perché un prodotto non risulti anonimo e non si perda di conseguenza nel mare delle pellicole proposte, al di là che al termine piaccia o meno.

Womb”, infatti, non può dirsi del tutto riuscito. L'empatia non è tale da spingere a sintonizzarsi con quanto accade fino a ritrovarsi immersi nella realtà raccontata. Non annoia, neanche per un momento, ma al tempo stesso non travolge. È una sensazione a cui è difficile dare spiegazioni oggettive; forse i dialoghi, forse alcune parentesi o forse, più semplicemente, è una storia non facile da rendere e Fliegauf è riuscito a farlo solo fino ad un certo punto. È difficile perché, invero, analizzando gli aspetti singolarmente non si avvertono particolari debolezze nella gestione degli stessi: funzionali regia e fotografia, musiche accennate e non invadenti, ritmi lenti gestiti con assoluta naturalezza (si veda la sequenza dell'incidente). Si mostra inoltre, il regista ungherese, notevolmente misurato e attento ai particolari, specie nella costruzione del rapporto morboso di una donna che cresce il figlio ora con l'affetto di una madre, ora con l'affetto di un'amante – il classico bacio sul capo diviene un bacio sul collo, lo stare affianco al proprio bambino sembra più un abbracciarsi al proprio uomo. Riesce a rendere in maniera forte una seppur solo suggerita repulsione verso ciò che si sta guardando, mischiando una delle cose più pure ad una delle cose più nauseanti.


L'unica debolezza oggettiva che trattiene, ma solo in parte, la pellicola potrebbe essere individuata nelle interpretazioni. Sono sufficientemente convincenti ma una prova ottima da parte degli attori avrebbe magari potuto rendere il tutto ancor più credibile (anche se va detto, ad onor del vero, che è chi scrive ad avere un serio problema con Eva Green). Resta, al netto delle considerazioni personali, una pellicola comunque valida che accende i riflettori su un autore e su un cinema di cui è bene, ancor prima che intellettualmente onesto, parlare.


venerdì 18 novembre 2011

Recensione "Somers Town"

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SOMERS TOWN (2008)





Regista: Shane Meadows

Attori: Thomas Turgoose, Piotr Jagiello, Perry Benson

Paese: UK



Ultimo lungometraggio di Shane Meadows (al netto del mockumentary "Le Donk & Scor-zay-zee"), "Somers Town" è l'ennesima conferma, laddove ce ne fosse ancora bisogno, del talento del regista inglese.
Presentato al Torino Film Festival, ha ricalcato esattamente le orme lasciate dal precedente "This is England" - distribuito solo di recente - vincitore del premio Speciale della Giuria alla prima edizione del Festival del cinema di Roma. Dopo aver ricevuto apprezzamenti unanimi dalla critica, infatti, è stato, come da copione, puntualmente ignorato dalle case di distribuzione nostrane, privando così il pubblico italiano, per la gran parte abbondantemente colpevole, di una pellicola ben superiore alla media di quelle presenti nelle nostre sale.

La storia è quella di due adolescenti, Tomo e Marek, le cui strade si incrociano in una Londra grigia e assente. Il primo fugge da Nottingham, il secondo, invece, vive nella capitale assieme al padre, immigrato polacco, gran lavoratore e in cerca di stabilità e di un nuovo inizio. Tra i due nascerà una genuina amicizia che li porterà, poi, ad innamorarsi della stessa ragazza.


La semplicità e la naturalezza con cui Meadows racconta i suoi personaggi ed i loro percorsi di vita sono il comune denominatore delle sue pellicole, nonché colonne portanti del suo cinema.
"Somers Town" non fa eccezione; al contrario, è forse il film in cui questi due aspetti assumono un'importanza ancora maggiore. La sceneggiatura, infatti, a differenza delle precedenti, non ha alcuna sfumatura che richiami parentesi dal ritmo più sostenuto o che possa tendere ad un colpo di scena o ad una qualsivoglia svolta. Quest'ultimo lungometraggio del regista inglese altro non è, infatti, che il racconto di un'amicizia, di una passione comune, di una storia, in fin dei conti, tra le più semplici.

Banale potrebbe dire qualcuno. Verrebbe da chiedersi, quindi, cosa di così affascinante ci sia nella semplicità di questo "Somers Town"; cosa ci sia di così efficace da rendere la pellicola in grado di toccare quelle corde che ogni spettatore spera vengano almeno sfiorate. L'unica risposta è forse anche la più semplice: Meadows non si limita a raccontare la realtà, trascina lo spettatore all'interno della stessa. Attraverso la sua telecamera non filtra la realtà, si limita a fotografarla in tutti i suoi aspetti, a coglierne tutte le sfaccettature e, soprattutto, a non aggiungerne di nuove, rendendola, per l'appunto, vera.


La realtà di Tom e Marek è quella di due adolescenti in cerca di un nuovo inizio, o in cerca di un modo per affrontarlo. Entrambi senza una loro dimensione e privi di una loro stabilità, trovano sostegno l'uno nella presenza dell'altro; l'uno nella sfacciataggine e nell'impulsività dell'altro, l'altro nella timidezza e nella gentilezza del primo. Sullo sfondo Somers Town, zona periferica di Londra che della Londra da copertina ha giusto il nome. La genuinità e le speranze di due adolescenti contrapposte al grigiore di una zona della città che di speranze ne regala ben poche.
Il regista di "Dead man's shoes" – la sua miglior pellicola fino a questo momento – mostra tutta la sua abilità proprio nell'affrontare questo dualismo e nel far convivere lo sguardo vivace di Tomo e Marek e quello spento di Somers Town, nel far convivere spensieratezza e malinconia. Le scelte di Meadows, in tal senso, sono perfette. A mitigare la vivacità dei due protagonisti, da una parte un bianco/nero gelido che colora la pellicola per quasi tutta la sua durata, dall'altra le scenario lavorativo del padre e il conseguente rapporto di quest'ultimo con Merek, affrontati entrambi in maniera analitica, seppur non fredda, e senza intenzione alcuna di creare una facile breccia nel cuore dello spettatore - benché al termine la pellicola in quel cuore riuscirà non solo ad entrarvi ma ad avvolgerlo con un tepore innegabilmente confortante.
Ad occuparsi di ciò, a far da collante tra questi due aspetti fra loro del tutto distanti, è una colonna sonora delicata e mai invadente che fin dalle prime sequenze, accompagnate da "Raise a Vein" di Gavin Clark e Ted Barnes, delinea questo dualismo: una melodia malinconica per un testo che si concede qualche riga di speranza:
"There's a vein of pure gold in the stone".


La colonna sonora, composta in gran parte da brani voce e chitarra, è in realtà un elemento imprescindibile nel cinema di Meadows, da aggiungersi e da mettere al pari degli altri. Come, del resto, la direzione degli attori. Thomas Turgoose, già protagonista nel bellissimo "This is England", offre anche in questo caso una prova ottima e Perry Benson, con un accento inglese tutto suo, risulta perfetto nel ruolo di “venditore di qualsiasi cosa si possa vendere”, tanto da riuscire a ritagliare all'interno della pellicola momenti inaspettatamente divertenti e che, nel loro piccolo, contribuiscono alla spontaneità e alla naturalezza di cui si scriveva in precedenza.
Anche se la sceneggiatura di "Somers Town", diversamente delle precedenti, è opera di Paul Fraser (comunque collaboratore di vecchia data del regista inglese), Shane Meadows è un autore completo, uno di quei registi che ancora scrive le sue pellicole oltre a dirigerle. Ciò, osservando il suo cinema, si avverte chiaramente. Si avverte chiaro il respiro della sua Inghilterra.
Che la distribuzione italiana l'abbia ignorato è cosa davvero triste. A chi legge, pertanto, si consiglia di fare esattamente l'opposto.


mercoledì 16 novembre 2011

Recensione "Brand Upon The Brain - A Remembrance in 12 Chapters"

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BRAND UPON THE BRAIN - A REMEMBRANCE IN 12 CHAPTERS (2006)




Regista: Guy Maddin

Attori: Gretchen Krich, Sullivan Brown, Maya Lawson

Paese: USA, Canada


“Fiume in piena” suggerisce un'idea riduttiva di quanto messo in scena dal regista canadese con questo suo ennesimo lungometraggio. Un flusso di ricordi tanto limpidi quanto confusi. Quelli di un di un uomo che torna sull'isola che ha avvolto la sua infanzia. Figure materne severe, folli, esagerate; figure paterne imperscrutabili e inquietanti. Un orfanotrofio in cui ci si muove attraverso porte che appaiono sempre più piccole; attraverso ambienti e pareti che stringono fin troppo: un faro. Il faro dell'isola, claustrofobico e angosciante. La regia Di Maddin lo rende quasi minaccioso. Lo rende strumento di controllo di una madre che scruta dall'alto quanto accade all'esterno. Una prigione, con la sua ora d'aria per figli e bambini.


Maddin estremizza tutto fino a renderlo esageratamente grottesco, troppo perché i volti inquietino più dei personaggi cattivi di una fiaba. Troppo perché i volti, gli altri, appaiano candidi come i personaggi buoni di una fiaba. Maddin estremizza, Maddin estremizza sempre. È quel suo modo lucidamente distorto di intendere il cinema. Quella sorta di flusso di coscienza che sistematicamente ricrea. Sembra volersi spingere oltre, questa volta. Sembra riuscirci. Non gli mancano certo gli strumenti per farlo, del resto. Un baraccone in cui tutto sembra trovare il suo posto. La regia è quella di un film muto, la fotografia è quella espressionista. Ma la fotografia ha anche momenti, brevi, di colore e il montaggio è martellante. L'intera pellicola è martellante. Sequenze così brevi da tendere al fotogramma si alternano ad una velocità ipnotica, capace di rendere quel sensibile contrasto di luci appena sopportabile. Un montaggio irregolare così frenetico da risultare sfiancante. Perché quello di Maddin è un cinema sfiancate per definizione. Frenetico, dicevamo. Frenetico è il ritmo al quale vengono vomitate parole - Maddin ha deciso di andare oltre questa volta. Lo si tenga a mente. Ai testi che accompagnano il muto si accosta il sonoro. Si scavalcano vicendevolmente. All'orecchio viene detta una cosa, allo sguardo ne viene suggerita un'altra. Uno sguardo più volte provocato con testi o parole illeggibili perché lasciati appena una frazione di secondo sullo schermo. Quella stessa frazione di secondo concessa ad un'inquadratura prima che il montaggio la strappi via con un taglio netto, facendo spazio alla successiva. Illeggibili, altre volte, perché si è concentrati sul sonoro. Inascoltabile quest'ultimo, altre volte ancora, perché si è intenti a leggere i testi, o a cercare di farlo. Il concetto arriverà lo stesso, resta da capire come e quando.


Si può tuttavia riprendere fiato. Il regista canadese alterna, alle precedenti, sequenze più misurate in cui i tagli netti e le successioni veloci vengono sostituite da dissolvenze, incrociate e non. A scandire i ritmi ancora una volta un sonoro che sembra dirigere un'intera orchestra. Cinema di un secolo fa, arricchito da elementi che un secolo fa non erano tali o non potevano esserlo. Nudi, erotismo, omosessualità, crudezza, accenni di colore, voce narrante. Cinema di un secolo fa. Gonfiato con orpelli moderni, si potrebbe pensare. Sbagliando. Quello di Guy Maddin è il risultato di una fusione perfetta che assomiglia al passato, ricorda il presente, ma che non è nessuno dei due. Sospeso tra il vecchio e il nuovo si ritaglia una sua dimensione. Apre sentieri tra una strada conosciuta e l'altra, la percorre, ma non la suggerisce. A Maddin non interessa che il suo cinema sia frubile. Maddin punta a sfiancare, è bene ricordarlo. Quasi cento minuti di provocazione visiva e sonora in cui si alterna di tutto. Anche a livello diegetico-tematico. Dodici capitoli sottolineano i continui cambi di registro. Minuti di grandangolare spensieratezza sfumati in parentesi malsane;  ritratti sentimentali tra giovani donne contrapposti ad una ricerca disperata del ritorno alla giovinezza; Esperimenti grotteschi mossi da quella ricerca evolvono in cadaveri che tornano in vita al suono di una lussuria disturbante.


Vorticoso e nauseante, ripercorre ricordi di lì a poco vissuti nuovamente. Un protagonista ormai adulto costretto a riviverli. Non è mai andato oltre. Quel suo oggetto del desiderio, ancora intatto nella sua memoria, inarrivabile, tanto da non permettere alle sue stesse labbra di andare oltre gli stivali della sua amata. Tranne una sola volta, audacia però smorzata dalla voce della madre; voce distorta dall'apparecchio attraverso cui in passato gli intimava di tornare; voce che è tornata a dettare tempi. Un passato che ritorna e si confonde col presente, come il cinema del canadese. Un cinema a tratti insostenibile, autocompiaciuto. Capace però di smuovere. Respinge a più riprese, non per noia ma per necessità. Non si preoccupa di rendere fruibile un linguaggio cinematografico oggi dimenticato. Al contrario, lo complica. Lo ha sempre fatto. Lo ha fatto quando ha mischiato il balletto al cinema in “Pages From a Virgin's Diary”, o quando ha riscritto la struttura del documentario in “My Winnipeg”. No, decisamente non si preoccupa della fruibilità. Tanto che ogni sua pellicola lascia dietro di sé un retrogusto spesso indecifrabile. Quanto sia esercizio di stile, seppur estremamente notevole, e quanto contenuto. Se sia un effetto ottico-sonoro che ammalia per nascondere il nulla o se sia cinema di spessore. Una cosa è certa: difficilmente vedrete qualcosa di simile in giro.


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