giovedì 29 maggio 2014

Maps To The Stars: let's talk about David


MAPS TO THE STARS (2014)





Regista: David Cronenberg

Attori: Robert Pattinson, Carrie Fisher, Julianne Moore, John Cusack, Mia Wasikowska

Paese:
Canada/USA


Un po' di gente con un po' di discrete ossessioni e un po' di traumi infantili alla base di quelle ossessioni. Il nuovo Crononberg, relativamente nuovo, che dalla violazione della carne come aspetto preponderante del suo cinema passa alla violazione della mente in maniera più ben più netta, rendendola non solo motore immobile ma assoluta protagonista.
Maps to the Stars è in questo senso emblematico, più che un film è un incubo che non risponde sempre alla logica, e che al contrario, ogni tanto, piazza qua e là robe in parte surreali, e sceneggiaturisticamente e visivamente. E' caricato ed esagerato, anche, sfiorando la parodia ma senza mai davvero assurmene i classici toni ironici, ché di fondo, si scriveva, resta un incubo. L'ultima fatica di Cronenberg, inoltre, è un po' un film del cazzo, diciamocelo.


Al di là degli entusiasmi di molti che si scagliano contro presunti critici che non capirebbero nulla, o presunti individui medi non in grado di apprezzare a fondo un'opera così profonda, così d'autore, così metaforica, la pellicola è palesemente debole, sotto vari aspetti, compreso il più importante, ossia quello filmico in senso stretto. Annoia, non riesce a fornire appigli a cui lo spettatore, seppur poco convinto, possa aggrapparsi per farsi trascinare nella visione. Perché è di Cronenberg che si sta parlando, non certo l'ultimo scemo, quindi gli si dà credito, anche se non particolarmente coinvolti. Ci si aggrapperebbe per partito preso, sulla fiducia. Peccato che il regista sia il primo a non fornirne (di appigli). Appare fin da subito un po' inconcludente e non si sa bene dove voglia andare a parare, non si sa bene su cosa concentrarsi esattamente. Ma potrebbe essere una scelta calcolata, perché il regista magari vuole scardinare i cliché, non proporre la solita linearità. Magari è proprio ciò che cerca, disorientare lo spettatore, non dargli troppi punti di riferimento per colpire solo più tardi. Probabile che nel prosieguo sia esattamente ciò che accadrà. Ma il problema con il "probabibile" è che l'evento non accada. E infatti non accade.
Così come inizialmente non si capisce bene dove il film voglia andare a parare, allo stesso modo non si capisce poi. Se voleva essere una critica allo show business, allora il film non si avvicina nemmeno all'affondo decisivo. Un po' di psicosi, un po' di pilloline, due gocce di Xanax. Ormai è una bibita seconda solo all'acqua lo Xanax, si sa perfettamente che ci sono parecchie storture, derive e debolezze, ce ne sono quante ne desideri e soprattutto sotto gli occhi di tutti, e se vuoi una critica feroce, al mondo Hollywoodiano nel caso in specie, non ci riesci con due stronzate su qualche psicofarmaco e un paio di grammi di cinismo tra prime donne sul set. Specie se qualcuno ci era riuscito egregiamente già una cinquantina di anni fa. Allora, forse, avrebbe avuto un certo effetto, ma oggi no, decisamente no. Ora come ora per fare una critica feroce non basta spiattellare determinate dinamiche, quotidinamente allo scoperto, sullo schermo, bisogna riempirle di pathos. Bisogna che arrivino. E che facciano male. Ma in Maps to the Stars non fa male in realtà nulla.
Voleva essere un viaggio nelle psicosi umane? Va bene, ma non c'è niente di nuovo, o che arrivi in maniera nuova. Intendiamoci, Cronenberg è sempre stato un regista abbastanza asettico nella messa in scena, ma tra alti e bassi riesce pur in quell'asepsi o proprio grazie a quella a ricreare un'atmosfera in grado di accogliere lo spettatore. Questa volta, però, pur avvertendola una certa dimensione, non si può non ammettere che è davvero poca roba, di certo non sufficiente a contrastare né tanto meno a giustificare la noia di cui sopra, che peraltro nel mentre continua ad aumentare.


E al termine il disegno del regista diviene lievemente più chiaro. E' un film nel film. E' la sceneggiatura di cui parla Agatha, su incesti vari conditi con un po' di mitologia. Aspetto, quest'ultimo, che va a posteriori a giustificare le scelte surreali di cui si scriveva inizialmente. E' lei che vive il film che dice di voler girare, nel film che sta raccontando lei che vuole girare il f... insomma un casino, su cui non è il caso di soffermarsi. Uno stratagemma con cui Cronenberg decide di mischiare le carte in tavola e disorientare. Ricorda Lynch in Mulholland Drive, lì però pur non capendo nulla alla prima visione, l'empatia non si quantificava. Qui invece si è disorientati, ma anche discretamente annoiati.

Un film nel film, quindi, quest'ultimo lungometraggio di Cronengerg. Un film che racconta un altro film. Un film che però oltre a raccontare un altro film contestualmente lo vive. Peccato solo che il film che il film racconta faccia un po' cagare, ecco.


lunedì 26 maggio 2014

Only Lovers Left Alive


ONLY LOVERS LEFT ALIVE (2013)




Regista: Jim Jarmush

Attori: Tilda Swinton, Tom Hiddleston, Mia Wasikowska, John Hurt


Paese: UK/Germania


Ambientazioni post rock, vampiri musicisti e Jim Jarmush. Difficile tenere basse le aspettative, diciamocelo. E dare un'occhiata al cast non aiuta affatto. Ma poco importa, quella delle aspettative è in realtà una questione di poco conto, e probabilmente neanche quello. Per quanto alte possano essere se un film è riuscito è riuscito e basta, e se ne resta affascinati durante la visione in un modo, comunque, mai del tutto prevedibile. Che è poi il motivo per cui non ci si stanca mai di assistere all'ennesima pellicola. Dubito, pertanto, sia stato un problema anche in questo caso. E' proprio che l'ultima fatica di Jarmursh zoppica vistosamente pur essendo in grado di volare.


Se da un parte "Only Lovers Left Alive" ricrea una dimensione lontana e alienante, dall'altra, quando si tratta di dar voce ai suoi personaggi, inciampa in ostacoli invero fin troppo evitabili per un autore navigato come Jarmush, forse troppo affascinato questa volta dalla sua stessa storia, in potenza emotivamente enorme e assai romantica, in effetti.
E' una  storia di amore e intimismo immersa in uno scenario fantasy che presta solo il volto al racconto, dandogli la possibilità di amplificare emozioni e fascino. Un po' come la fantascienza di "Another Earth" o "Melancholia", per intenderci. Viene nuovamente rispolverata la figura del vampiro senza tempo, della figura che ha visto e vissuto intere epoche, che può con la sua eternità rendere epici dinamiche e sentimenti in realtà prettamente umani. Nel ricercare ulteriore fascino, inoltre, il regista immerge il tutto in uno scenario decadente e disilluso, quello di una Detroit che riesce a vivere solo dei fasti passati, in grado già da solo, ma sempre in potenza, di tenere tutto in piedi. E ancora, per non farsi mancare nulla, affianca a questo un altro scenario altrettanto ammaliante: una Tangeri tanto distante quanto calda e avvolgente.
A venirne fuori è la dimensione calssica e riconoscibile della filmografia del regista, collocabile solo in termini geografico-temporali, perché del tutto sfuggente a livello emotivo. Succede ogni volta con le sue pellicole, ed ogni volta si ha sempre la sensazione di essere coscienti, fino a che si esce dal cinema o ci si allontana dallo schermo e si ha a che fare con la difficoltà evidente di risintonizzarsi con la dimensione reale. Capacità ormai sempre più rara, nonché valore aggiunto e discriminante quando si parla di gente che fa cinema e gente che ci prova.

Muovendosi tra i resti di grandi teatri ormai adibiti a parcheggio, i resti di eccellenze industriali e ovviamente i resti dell'anima musicale di Detroit, il regista statunitense delinea prima e percorre poi i sentieri di una depressione, quella del protagonista, che diviene il soggetto del ritratto di una realtà fatiscente e senza speranza.  Si muove lentamente Jarmush, ovvio - difficile sia in grado di muoversi in altra maniera - e si prende tutto il tempo per soffermarsi sull'animo della sua coppia di vampiri e sull'amore che per secoli li ha accompangati, traghettandoli fin qui. Lo fa con una regia che raramente concede attenzioni ad altro, che preferisce, variando angolazioni e movimenti, concentrarsi e rifugiarsi nel tepore dei due amanti.
Del resto non ci sarebbe di fatto nemmeno un intreccio da seguire, se non quel minimo indispensabile a non immobilizzare un racconto. Semplicemente è un immergersi, la pellicola, nella dimensione raccontata al solo fine di restarci per un paio d'ore.


Il senso quindi dell'ultimo lavoro di Jarmush è chiaro, e viene anche raggiunto per certi versi. Peccato però, come accennato in precedenza, che con quei dialoghi non si vada da nessuna da parte. Sembrano presi in prestito da prodotti televisivi di serie b in stile "Sanctuary". Viene fuori che uno dei vampiri è Christopher Marlowe, il protagonista è stato amico di Byron e ha regalato grandi opere a Schubert, vengono fuori nomi di comodo come Fibonacci e Dr. Faust e tutto l'entusiamo viene smorzato con giochetti e scambi che lasciano in bocca quel sapore discretamente amarognolo di infantilismo e faciloneria. E ai dialoghi è affidato, è chiaro, anche il compito di descrivere lo sfacelo umano e metterlo in contrasto con l'eternità dell'amore, dell'arte e della grandezza. Di tutti quei valori che l'uomo ha dimenticato. Discorso che sì va bene, ma che forse era meglio lo si lasciasse sottinteso, ché le immagini (insieme alle musiche) in questo film parlano infinatamente meglio delle parole. Tanto che l'eterna storia d'amore, al termine, affascina solo fino ad un certo punto, l'atmosfera non riesce a rapire del tutto e le potenzialità insite nel racconto restano a conti fatti solo tali.




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