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lunedì 31 marzo 2014

Nymphomaniac


NYMPHOMANIAC (2013)




Regista
: Lars Von Trier


Attori: Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin, Shia LaBeouf, Christian Slater, Uma Thurman

Paese:
  Denmark/Germany/France/Belgium/UK


Raccontare il senso di vuoto esistenziale e girare una pellicola vuota emotivamente. In linea di massima avrebbe senso. O meglio, in termini di logica avrebbe senso: vuoi ritrarre un'asepsi emotiva, ergo non fai passare emozioni oltre lo schermo. Sì, siamo d'accordo, però c'è un piccolo aspetto da tenere in considerazione, ossia che si sta parlando pur sempre di un prodotto cinematografico. E un prodotto cinematografico dovrebbe in teoria suscitare un certo trasporto, una certa empatia. Dovrebbe, insomma, redendersi interessante per permettere allo spettatore di voler andare avanti con la visione, di godersi, nel bene o nel male, la storia che gli viene raccontata.


Ora, il piccolo Lars con le sue piccole turbe sembra essersene reso conto. Dopo l'orrido "Antichrist", infatti, gira "Melancholia" (seconda pellicola della trilogia ideale sulla depressione. L'ultima è appunto "Nymphomaniac") e capisce che per raccontare il vuoto deve comunque far passare robe dall'altra parte. E così fa. Pur avendo, il suo film apocalittico, più di un punto debole - dagli eccessi che non sa gestire al caricare troppo, fino a spiattellarle in faccia, le sue riflessioni sulla cattiveria umana e sulla depressione, tanto che sembra di leggere la bacheca facebook di un emo di 14 anni - riesce nell'intento di costruirsi un suo fascino, di trasmetterlo, di renderlo pertanto fruibile a chi guarda.
Nello stesso modo, Lars trova il giusto codice per affrontare questa sua ennesima pellicola sul tema. Se in precedenza era stata la dimensione apocalittica in cui aveva immerso storia e protagonisti, questa volta il suo strumento è l'ironia. Un'ironia di cui invero non credevo fosse capace. La inserisce in maniera sapiente nella discussione lunga tutto il film a cui è affidata la narrazione. Smorza i toni e rende una storia grigia un po' meno grigia, o forse inframmezza una storia nera con parentesi di colore, ciò che è importante è che questa scelta sembra funzionare. E' affidata alla dicotomia tra due personaggi apparentemente agli antipodi, una ninfomane dominata dagli istinti, Joe, e un vecchio asessuato che razionalizza ogni minima dinamica, Seligman, dando forma a parentesi singolari che contrastano lo stile registico/narrativo rigido e chirurgico di Von trier. Stesso ruolo hanno le scelte musicali presenti soprattutto nella prima parte (Rammstein e Steppenwolf), ben distanti dalla fisionomia della pellicola. L'eleganza nella costruzione delle scene, quindi, non è più mero esercizio di stile ma si veste di aspetti in grado di darle un senso.


Ci si ritrova a vivere la vita raccontata in prima persona della protagonista, l'epopea sessuale nella quale si lascia andare senza nemmeno cercare appigli. E' interessante seguirla, osservarla, cercare di capire, godendo al tempo stesso delle parentesi grottesche in cui si ritrova di volta in volta (ottima la parte con Uma Thurman). Così fino ad un punto di svolta, che coincide con la chiusura del primo dei due volumi in cui hanno diviso la pellicola della durata di 240 min - cosa che non andrebbe mai fatta, dato che se il regista ha deciso che servono 4 ore per raccontare ciò che vuole raccontare, vuol dire che ne servono 4, da non spezzettare a cazzo, ma i motivi della distribuzione sono in parte comprensibili e ok.
Il punto di svolta è la perdita di una ninfomane del proprio strumento, il suo organo sessuale "smette di funzionare", non sente più nulla. Chiaro, qui la drammaticità per forza di cose deve aumentare, non ci si può più permettere di usare l'ironia come prima. Da qualche parte la storia deve arrivare. Quindi dopo l'ultima parrentesi ironico/grottesca i toni si fanno ancora più cupi, ed è qui che a mio avviso Von Trier inizia a perdersi. Non trova un codice sostitutivo dell'ironia per mantenere alto l'interesse, e la pellicola scivola verso l'asepsi emotiva di cui si scriveva inizialmente. Le successive due ore sono meno un ritratto romanzato e più un elenco di eventi. Ciò che nella prima parte era solo una sensazione, qui si concretizza, e la paura che si risolva tutto in noia prende sempre più forma fino ad arrendersi alla consapevolezza che è ciò che succederà. E di lì a poco infatti succede. Si ha sempre meno voglia di assistere a cosa accade, di capire come e dove andrà a finire. E un attimo dopo, quando Lars si autocita, quando cita nientemeno che "Antichrist" capisci che non c'è più scampo. Di nuovo un maledetto bimbo lasciato libero di andare sul balcone mentre nevica, causa richiami sessuali. A quel punto anche la speranza viene meno.


Quanto narrato dopo, non a caso, non è che un totale deragliamento dal punto di vista, questa volta, prettamente sceneggiaturistico. Il percorso di Joe diviene, volendo usare un eufemismo, poco credibile, per non usare termini come "sciocco" o sinonimi vari. L'ultima parte è un trascinarsi a fatica tra le solite forzature, tra dialoghi deboli e riflessioni a volte semplicistiche a volte ben poco interessanti, tra un capezzolo stimolato e una golden shower che, fumante perché in contrasto col freddo, fa scena (dettagli sessuali che come il resto smettono di essere funzionali). La visione diventa quasi insostenibile e dato che siamo al termine non c'è modo di riprendere il giusto binario. Anche perché se dopo 3 ore e mezza mi propini svolte simili è difficile che tu sappia riaddrizzare il tiro.

E alla fine tutto si chiude, con un evitabile twist ending un po' telefonato e figlio dell'adolescente che c'è in Lars. Si chiude l'ennesimo spreco di un regista che fino ad un certo punto è un signor regista (è sempre il nome dietro quel capolavoro che è "Dogville") e che oltre quel punto lascia le redini alle sue turbe esibizioniste, oltreché forzatamente provocatorie, e perde di vista tutto il resto.



giovedì 24 novembre 2011

"Another Earth"

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ANOTHER EARTH (2011)





Regista: Mike Cahill

Attori: Brit Marling, William Mapother

Paese: USA



La sezione “commenti” verrà dedicata a quelle pellicole di cui non scriverò un'analisi particolarmente approfondita, o per questioni di tempo o perché la pellicola non ha molto da dire. Sarebbe quindi inutile, nel secondo caso, allungare il brodo e trascinarvi in un elenco di aspetti negativi comuni a molti altri film e non degni di nota, pur nella loro negatività. Perché, al contrario, molti altri film comunque non riusciti meritano ugualmente una recensione; magari è una pellicola per certi versi importante che non si può liquidare con due parole; magari è così stupida che scriverne una recensione può risultare divertente.

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Ad inaugurare la sezione è “Another Earth”, pellicola diretta da Mike Cahill - a cui bisogna voler bene anche solo per il fatto di aver contribuito (come online editor) alla creazione dell'incantevole documentario “Leonard Cohen: I'm Your Man”. Quella raccontata è la storia di una ragazza, Rhoda (Brit Marling, co-sceneggiatrice), che torna in libertà dopo aver scontato, per omicidio colposo, una pena di 4 anni. Decide, a suo modo, di entrare in contatto con l'unica vittima sopravvissuta dell'incidente stradale da lei provocato. Sullo sfondo l'avvicinarsi di un altro pianeta, identico alla Terra.


L'aspetto in assoluto più interessante di “Another Earth” è quella fantascienza di cornice che sembra si stia imponendo nell'ultimo periodo. Quella fantascienza che fa da sfondo ad un intreccio assolutamente umano e il cui ruolo è pressoché passivo. Lo ha fatto Von Trier con “Melancholia”, il nostro cinema con “L'ultimo Terrestre” di Pacinotti e, per l'appunto, Cahill. È parere di chi scrive che sia una scelta in potenza assai affascinante, perché conferisce ad una storia altrimenti classica un'atmosfera irreale, capace di elevare il racconto e dargli apparentemente un peso maggiore, quasi fossero, le relative riflessioni, più profonde. La pellicola in questione, infatti, non sarebbe stata affatto degna di nota senza quest'aspetto. Sarebbe stata anonima e banale. Non a caso la storia, singolarmente presa, lo è comunque e rappresenta il limite maggiore del film, un limite insormontabile che ne compromette la riuscita. Più di una scelta appare forzata e scontata e i personaggi troppo stereotipati. L'incapacità di creare empatia, poi, non aiuta affatto.

Volutamente artificiale, la fotografia vira verso tonalità blu, conseguenza della vicinanza dell'altra Terra, e assume un ruolo fondamentale nella resa di quella necessaria atmosfera. Si confà al ritmo lento e contemplativo proposto da Cahill e colora una sequenza conclusiva davvero ottima - e che si chiude, a sua volta, anche meglio – capace di proporre una riflessione decisamente funzionale ai fini del racconto e, diciamocelo, anche un po' confortante.


domenica 6 novembre 2011

Recensione "Melancholia"

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MELANCHOLIA (2011)




Regista: Lars Von Trier

Attori: Kirsten Dust, Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Charlotte Rampling, Alexander Skarsgård

Paese: Danimarca, Francia



Panico. Le sequenze d'apertura dettate dalla riscoperta di mezzi esterni al Dogma95 lasciano presagire il peggio. Sensazione capace di atterrire se si considera che per “peggio” s'intende la pellicola precedente del regista. L'inizio del nuovo lavoro di Lars Von Trier sembra, infatti, un preludio ad una sorta di “Antichrist” 2.0 che laddove si fosse concretizzato avrebbe reso “Melancholia” solo una riproduzione in scala 1:100000 del contatto e della conseguente distruzione di due altre sfere, queste però molto più vicine allo spettatore. E invece l'apocalisse resta fortunatamente solo sullo schermo, sventando quella che sarebbe potuta essere quanto mai reale. Questa volta il regista danese non si annulla nel suo manierismo, non si perde tra un fotogramma e l'altro e sforna una pellicola che al di là del gusto personale può dirsi assolutamente valida.

Per raccontare la sua malinconia si serve di nomi di tutto rispetto e mette in scena il matrimonio tra Justine (Kirsten Dunst) e Michael (Alexander Skarsgård) nella villa di John (Kiefer Sutherland), marito di Claire (Charlotte Gainsbourg) e sorella di Justine. Divide il racconto in due capitoli e privando Justine del primo piano dedica la seconda parte a Claire, esplorandone intimità e debolezze, e al pianeta “Melancholia”, che rischia di collidere con la Terra, distruggendola.


L'intera pellicola è pervasa di un senso di indefinito capace al tempo stesso di svuotare ed inquietare. Svuotare quanto accade, rendendo il matrimonio un modellino di cartapesta, ed inquietare, suggerendo quel nulla malinconico che proprio in quanto tale non può riempire un vuoto che quindi resta tale. Justine si allontana dal suo matrimonio in maniera sistematica, a volte per spogliarsi del suo vestito e perdersi in un bagno caldo, altre volte per dormire nei momenti più importanti della cerimonia, altre volte ancora per passeggiare nella parte esterna della villa. Michael, dal canto suo, sembra non farsi troppe domande pur non avendo al suo fianco colei che proprio in quell'occasione non avrebbe dovuto far altro che stargli affianco. Von Trier racconta queste parentesi quasi come fossero normali, almeno nella prima parte della pellicola, riuscendo così a trasmettere quel senso di straniamento che si rivelerà in seguito fondamentale per quel tratto predominante da cui la pellicola prende il titolo.
In questo capitolo la fotografia, aiutata da ambientazioni sfruttate in maniera brillante, ricerca luci particolarmente calde perché possano scontrarsi con la freddezza interiore di Justine, che dispensando forzati sorrisi si aggira per le stanze non riuscendo a nascondere la sua assoluta inadeguatezza. Amplificata, quest'ultima, dai suoi continui tentativi di lasciarsi andare a quei festeggiamenti che non le sono mai appartenuti, fin da prima ancora di prenderne parte. Fotografia che al contrario, non a caso, sottolinea perfettamente la felicità che sfiora la favola di Michael, nel giorno, a suo dire, più bello della sua vita. Almeno fino al momento in cui anche lui non potrà più evitare di guardare negli occhi la malinconia di colei che sarà sua moglie ancora per qualche istante e abbandonerà il suo stesso matrimonio. 


Con Michael, l'unico personaggio capace di provare una genuina serenità e che non a caso esce di scena, vengono meno anche quei colori capaci di restituire un certo calore alla pellicola, seppur solo formale. La seconda parte, infatti, si mostra principalmente per una fotografia, all'opposto, più spenta, che ora cede alla malinconia invece di contrastarla, palesando il volto reale e definitivo della pellicola. In primo piano adesso c'è Claire. Viene mostrata non più solo per quell'aspetto apparentemente sicuro e misurato visto nella prima parte, ma anche e soprattutto per quello più fragile e debole nei confronti dell'ipotesi catastrofica che incombe sulle loro esistenze. Profilo che ben si adatta ai toni grigi assunti dalla pellicola e rafforzati anche da una Justine che è ormai del tutto in balia della sua sofferenza. Lo è, almeno, fino a quando la fine non smette di essere lontana e diviene imminente realtà, perché con essa diverrà realtà anche la fine della sua miserevole esistenza. Ed è a questo punto che il film si prende gioco della speranza insita nell'umanità, attribuendo a “Melancholia” una curva beffarda che lo porterà a sfiorare la Terra ed allontanarsi da essa prima e ad avvicinarsi nuovamente fino a travolgerla dopo. Quest'aspetto è gestito in maniera assai notevole da Von Trier al contrario della parte appena precedente limitata da qualche lungaggine di troppo, cosa che in un film di questo tipo assume un peso non indifferente. Prima della fine, quindi, il regista danese distrugge, e ci tiene a farlo, la speranza, ravvivandola e poi costringendola a spegnersi. Justine, infatti, con una ritrovata fredda vitalità incalza Claire sbattendole in faccia l'inevitabile e forzandola alla rassegnazione. Ed è qui che Von Trier fa un altro passo falso, rincarando eccessivamente la dose per bocca della stessa Justine. Le sue riflessioni divengono forzate e anche un po' banali, probabilmente figlie dei traumi del piccolo Lars: si passa da “La vita è cattiva” a “merita di sparire” che sembrano far parte di un quadro che sarebbe stato completo con qualcosa tipo “Vi odio tutti. By Sonosolo92”. Aspetti, comunque, che limitano la pellicola ma che fortunatamente non ne minano la riuscita.


Un film catastrofico quasi senza catastrofe, insomma. Solo Peter Weir aveva osato di più con “L'Ultima Onda”, meraviglioso, negando alla catastrofe anche i soli due minuti ad essa dedicati da Von Trier. A minacciare l'umanità, più che il pianeta, sembra il vuoto, il nulla esistenziale, la malinconia. Ogni personaggio, a ben vedere, sembra arrancare nella sua inadeguatezza seppur con reazioni diverse. Il padre di Justine, dietro il divertimento di facciata, sembra fuori dal mondo ed esterno alle sue dinamiche; la madre di Justine è identica alla figlia; Claire smette di essere presente mostrando reazioni non propriamente stabili; John reagisce in maniera repentina e tragica senza affrontare nulla e nessuno. Sembra quasi che la malinconia venga presentata come tappa ultima di un'umanità destinata al nulla emotivo e quindi come strumento di distruzione. Come la vera ed unica minaccia all'esistenza. Non a caso il pianeta che nel film la distrugge si chiama per l'appunto Melancholia.
In quest'ottica l'obiettivo di Von Trier è “semplice”: dare un volto alla malinconia. Mette in chiaro fin da subito come andrà a finire, attraverso sequenze di immagini che svelano la collisione tra i due pianeti; fa così in modo che lo spettatore abbandoni qualsiasi altra ipotesi risolutiva e sia predisposto al suo racconto. Alla descrizione di un sentimento privo di speranze. La pellicola è questo, null'altro. Non c'è da scavare oltre, non ci sono riflessioni profonde, non nasconde un trattato di filosofia. È una descrizione pura e semplice che sfocia nella più pessimistica delle visioni.

Senza dubbio riuscito, in definitiva, “Melancholia” soffre però di difetti evidenti. Le interpretazioni strepitose della Dunst e della Gainsbourg in parte li nascondono, ma ovviamente la sensazione che con qualche accortezza in più in fase di sceneggiatura la pellicola sarebbe stata di tutt'altro peso resta.


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