sabato 14 gennaio 2012

Shame

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SHAME (2011)





Regista: Steve McQueen

Attori: Michael Fassbender, Carey Mulligan

Paese: UK


Dopo essersi presentato al mondo cinematografico con una pellicola d'esordio come “Hunger”, il cui valore molti registi non riuscirebbero ad eguagliare neanche dopo una carriera intera, Steve McQueen gira il suo secondo lungometraggio, creando aspettative quanto meno elevate. Non semplicemente per la normale curiosità che anticipa l'uscita del film di un cineasta apprezzato, ma anche perché il regista, come spesso accade nel cinema d'autore, sceglie nuovamente Fassbender – strepitoso in “Hunger” - per il ruolo principale. A ciò si aggiunge inoltre un soggetto singolare, che se plasmato secondo gli stilemi mostrati in precedenza, risultato della commistione di visceralità ed eleganza, non può non far sperare nell'ottima riuscita della pellicola.

Brandon Sullivan (Michel Fassbender) è un uomo d'affari. Vive a New York City, da solo, e la sua vita è scandita secondo i ritmi dettati da una dipendenza dal sesso che non riesce in nessun modo a gestire. Si masturba a casa come al lavoro, i suoi armadi sono pieni di riviste pornografiche, il suo computer di siti porno, tanto da avere una prostituta in videochat che sembra conoscerlo e conoscere a fondo i suoi gusti sessuali, e paga prostitute in maniera sistematica. Dopo svariate telefonate senza risposta, la sorella di Brandon, Sissy (Carey Mulligan), irrompe nella sua vita accentuando con i suoi disagi quelli del fratello. 


In questo secondo lavoro, McQueen ripropone con forza quegli aspetti che hanno fin da subito reso il suo cinema riconoscibile. Probabilmente influenzato dall'interesse attivo verso la scultura, lo sguardo del regista si concentra quasi esclusivamente sul soggetto, lasciando in secondo piano l'intreccio. Se in precedenza erano state l'IRA e la prigionia, questa volta a far da sfondo alla celebrazione umana e visiva del protagonista sono il lavoro e la sorella dello stesso, l'unica forse a cui viene dedicata qualche attenzione in più, seppur sempre e solo come mezzo utile a generare prima e ad inquadrare poi le reazioni del protagonista.
La sequenza d'apertura, da sola, è già una dichiarazione di intenti che non si presta in alcun modo ad ambiguità interpretative: Brandon è steso sul letto, mezzo nudo, coperto dal lenzuolo; il suo sguardo è spento e la telecamera lo inquadra dall'alto, bloccandolo in una porzione di spazio ristretta, come quella che si è costruito all'esterno e in cui si costringe a vivere: l'importanza della forza visiva dei corpi e quella della parte umana che quei corpi li riempie, ossia McQueen in una manciata di secondi. Per l'intera pellicola quanto appena scritto verrà sottolineato in maniera sistematica. Le scene che seguono, infatti, tratteggiano attraverso il corpo completamente nudo di Fassbender una routine fatta di masturbazione, sesso e rassegnata disillusione, che svuota il protagonista un giorno alla volta.

Il film non è altro che questo, ossia il racconto di un uomo e della sua prigione. L'elemento sceneggiaturistico scelto, quello della dipendenza dal sesso, sarebbe potuto facilmente trasformarsi in una farsa nelle mani di qualche altro regista, McQueen invece riesce a renderlo in tutto il suo essere angosciante, pur non preoccupandosi di schivarne l'aspetto più esplicito. Al contrario, sembra cercare con forza le sequenze che portano in primo piano sesso e masturbazione, soffermandosi sui corpi con un'insistenza tale che apparirebbe morbosa se non fosse così distaccata e quasi artistica (oppure funzionale, quando distaccata non lo è). Del resto la vita sessuale del protagonista è già di suo lontana da qualsivoglia emotività, essendo semplicemente l'atto meccanico con cui placare l'astinenza. Se, anzi, c'è dell'emotività è solo quella più claustrofobica e opprimente che porta il protagonista a spiegare un titolo estremamente esplicito come quello scelto per la pellicola. La vergogna di Brandon è infatti l'altra faccia della dipendenza, la sbarre della prigione di cui si scriveva. Prova vergogna per se stesso al punto di non sopportarsi; al punto di punirsi, finanche a provocare la sua eterosessualità facendo sesso orale con un altro uomo; al punto di non riuscire a sostenere la visione della sua immagine riflessa nel volto della sorella. 


Il personaggio di Sissy, come si diceva, più che un personaggio attivo di un intreccio peraltro già quasi inesistente, è lo specchio nel quale McQueen costringerà il protagonista a specchiarsi continuamente. La sorella è simile a Brandon, soffre anche lei di dipendenza (non dal sesso) ed ha inoltre tendenze suicide. È Brandon, solo più debole, e lui lo sa, tanto che fin da subito mostra nei suoi confronti una freddezza che a volte sembra quasi un disagio; evita di incrociare il suo sguardo e fa fatica a dirle che può restare a casa sua. Ogni tanto, però, sembra lasciarsi andare ad un gesto affettuoso, come se stesse consolando se stesso, salvo distaccarsi nuovamente subito dopo. Al termine non è altro che una dimostrazione ulteriore da parte del regista britannico di quel suo non voler concentrarsi su caratteri diversi da quello principale.

Si ritrova la poetica di “Hunger” anche nella gestione prettamente narrativa. La prima parte del racconto è fredda, non coinvolgente, al limite della noia. Gradualmente, però, cresce un'empatia della quale quasi non ci si accorge, fino a sentire il protagonista in tutta la sua sofferenza. Non potrebbe essere altrimenti, se si considera che Mcqueen non opta per scelte registiche d'impatto o per ritmi elevati che possano proprio in quanto tali coinvolgere nel giro di qualche sequenza chi guarda. La sua, al contrario, è una regia raffinata ed elegante, che pur mostrando tecnicismi pregevoli e mai fini a se stessi – tornano i long take che ricordano i 17 minuti ininterrotti tra Bobby Sands e Padre Mullen – risulta sempre misurata, se non in rarissime occasioni (si veda il rapporto sessuale tra Brandon e le due prostitute che grazie a regia e montaggio porta l'asfissia della dipendenza al suo livello più alto).
Proprio la sequenza appena descritta, però, è il climax della narrazione. Immediatamente dopo, infatti, il coinvolgimento inizia a scemare e la parte finale, che sarebbe in quanto tale dovuta essere il punto d'arrivo del crescendo emotivo, non risulta così forte come ci si aspettava. Fortunatamente quello tra il climax e l'ultima sequenza non è un periodo troppo lungo e la pellicola termina prima di poter iniziare seriamente ad annoiare. Tuttavia la sensazione che alla chiusura del racconto manchi qualcosa resta e “Shame” non può non risentirne.


Si è ben lontani quindi dai livelli a cui McQueen ci aveva abituati, ciononostante il suo secondo lavoro, interpretato ottimamente e fotografato anche meglio, è senza dubbio migliore della gran parte delle pellicole in circolazione. Il suo terzo lungometraggio è previsto già per il 2012, e parlerà di un uomo nato libero e divenuto poi schiavo. Anche in questo caso i presupposti ci sono tutti.


13 commenti:

  1. se mi dovessero pagare per scrivere una storia eviterei di parlare di sesso.Perchè è facile scadere nel sensazionalismo e in un certo bigottismo trasgressivo.L'erotizzazione forzata,il vizio facilone e non appagante,tutto esteriore per mostrare agli altri chissà quale gioia fisica,è chiaramente una delle radici infette che porterà l'occidente-non il mondo come ripetiamo con presunzione noi- alla fine.
    Tema quindi alto,ma per me troppo complesso da mettere in scena.
    Hunger esiste anche un cazzo di filmetto horror stile saw.E io ho scaricato quello accidentaccio.Quello su Bobby devo vederlo,sono un grandissimo sostenitore della causa irlandese e anche dell'ira

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    1. Non ho capito se lo hai visto o meno, in ogni caso, Davide, puoi stare tranquillo, a McQueen del sensazionalismo erotico non gliene frega assolutamente nulla ;)

      Quanto ad Hunger, si. Molti si sono confusi con l'horror. Lo trovi facilmente su megaupload, già sottotitolato. E non rinviare la visione, fidati.

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    2. no,non l'ho visto era un ragionamento più ampio sul sesso rappresentato al cinema
      Certo Hunger è un film che dovrò vedere,penso di essere sulla buona strada

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  2. Sono molto curioso e la tua recensione mi fa ben sperare, a parte quel difettuccio della parte finale. Tra l'altro Hunger ce l'ho sempre lì in lista d'attesa ma ancora non mi sono deciso a guardarlo...

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    1. Beh, non proprio "uccio", in realtà. Tuttavia la pellicola è sicuramente da vedere. Ciò che invece va necessariamente visto è "Hunger".

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  3. Ho letto tutta la recensione e sono comunque convinta di andarlo a vedere, nonostante vari momenti di noia.
    Tra l'altro mi hai fatto venire anche voglia di vedere Hunger...!

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    1. In realtà lo avresti visto comunque, anche se avessi scritto che era la cosa più brutta di sempre. E sappiamo entrambi perché ;) No, seriamente, guardalo perché comunque merita.

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  4. E finalmente commento con cognizione di causa. Hai ragione: se avessero tagliato una decina di minuti nella parte finale, il film ne avrebbe guadagnato parecchio. Resta comunque un' ottima visione, avercene di film così.
    E io rispetto sempre a prescindere un tizio che gira un dialogo di dieci minuti, di spalle e senza stacchi.
    ah, lo sai chi sono, eh? che wordpress ha deciso che io qui non ci posso più commentare.

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    1. Certo che lo chi sei, dobbiamo decisamente porre fine a questa guerra tra piattaforme.

      Comunque, vedo che sul film siamo del tutto d'accordo, del resto è anche per questo che sei una brava persona ;) E sappi che anche io rispetto parecchio uno che gira un dialogo in quel modo.

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  5. è un film crudo, senza speranza, a volte ripetitivo, ma come si dice, e io sono d'accordo, "Hunger" batte "Shame" 2 a 1.
    come direbbe Caparezza, il secondo film è sempre il più difficile:)

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    1. Beh si, in tutta probabilità è vero che il secondo film è più difficile, ma io ad Hunger darei almeno un altro punto. Dai, facciamo un 3-1 e non se ne parla più ;)

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    2. 2 a 1 nel senso che vale il doppio, 3 a 1 è impietoso:)

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    3. Va bene, dai. In questo si, sottoscrivo ;)

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