lunedì 17 ottobre 2011

Recensione "This Must Be The Place"

THIS MUST BE THE PLACE (2011)




Regista: Paolo Sorrentino

Attori: Sean Penn, Frances Macdormand, 
           Judd Hirsch 

Paese: Italia - Francia - Irlanda



Fuori dai confini nazionali, Sorrentino sembra perdere di vista il suo cinema, o meglio quell'aspetto del suo cinema che gli ha nel tempo permesso di girare pellicole riconoscibili e intrise di una personalità così coinvolgente da costringere occhi e cuore a non staccarsi dallo schermo per l'intera durata delle stesse. Ci si riferisce alla capacità di rendere viva la parte più intima della pellicola, di portarla in primo piano con facilità disarmante, palesando tutte quelle emozioni che lo spettatore, a quel punto, non deve far altro che far sue. “L'uomo in  più”, primo lungometraggio del regista, è in questo senso illuminante. L'empatia che viene a crearsi in maniera del tutto naturale con il Pisapia di Servillo, in sé non un personaggio così magnetico, è totale. Del resto è ciò che fa il regista napoletano, rendendo protagonista, ancor prima di storia e personaggi, l'anima degli stessi.

Dedicando uno sguardo, anche veloce, alla trama di “This Must Be The Place”, non si fatica ad immaginare quanto essa possa risultare funzionale al tipo di cinema proposto da Sorrentino. Una ex rockstar di fama mondiale, Cheyenne (Sean Penn), buffo e semi-depresso a cui viene comunicata la morte del padre, che ha impiegato 30 anni della sua vita a dare la caccia al suo carnefice ad Auschwitz, decide di portare avanti in giro per gli Stai Uniti la ricerca di tale Aloise Lange. Di materiale introspettivo ed atmosfere da restituire allo spettatore dovrebbero essercene a sufficienza.


Che dietro la macchina da presa ci sia Sorrentino risulta evidente già dalle primissime inquadrature. La sua regia e più in generale la costruzione delle sequenze è un piacere per gli occhi. Piani-sequenza lunghi e senza stacchi superflui si alternato a carrellate di cui francamente si sentiva la mancanza, così come inquadrature che stringono sui protagonisti si alternano ad altre che addirittura li oltrepassano, il tutto immerso in ambienti e colori costruiti con attenzione maniacale. È in uno scenario simile che viene presentato Cheyenne, con il suo smalto, il suo rossetto e il suo volto bianco di cipria. Un'esuberanza che stride con un'apatia, la sua, estremamente evidente. Un personaggio con una personalità ormai solo esteriore.
Una tale ricercatezza formale ed estetica rendono immediato il magnetismo di cui si parlava inizialmente, con buona pace di chi da Sorrentino si aspettava esattamente Sorrentino. Invero, già durante questa prima parte si avverte che potrebbe non esserci qualcosa oltre la forma, ma è solo l'inizio, quindi si abbandona in gran parte l'idea e ci si lascia cullare dallo spettacolo visivo, in attesa del resto, resto inteso come sostanza, chiaramente. Fino a che si giunge puntuali a quel momento: la sequenza in cui Cheyenne si siede affianco al corpo ormai freddo del padre è privo di dialoghi e frasi superflue, l'unico strumento a cui il regista affida la comunicazione è, al solito, la musica. La stessa accompagna e riempie i primi piani, restituendo quelle emozioni necessarie ad entrare, prima e a far proprio, poi ciò che si sta guardando.

È da questo momento in poi che il dubbio che poco tempo prima ci si era lasciati alle spalle, accantonandolo, con una certa dose di autoconvinzione, come impressione di poco conto, comincia ad acquistare lentamente concretezza, alimentandosi di quelle scelte cinematografiche che se non gestite senza imperfezione alcuna possono rivelarsi particolarmente deleterie: ritmi lenti, tempi dilatati e regia introspettiva. Il regista italiano non ha mai avuto difficoltà a gestire aspetti simili, li ha, al contrario, sempre cercati perché parti integranti del suo linguaggio filmico. Che non fosse in grado di farlo, dopo 4 film in questo senso perfetti, è qualcosa di eufemisticamente spiazzante, l'unica che non ci si aspetta. Fatto sta che tale difficoltà risulta in questa pellicola assai evidente. Le sequenze che si alterneranno sullo schermo per una durata peraltro non indifferente vivono di vita propria, quando ci riescono. Sì, perché se riescono a strappare sorrisi o altre emozioni di sorta, magari dovute alla ricercatezza tecnica di cui sopra, lo fanno in maniera quasi del tutto distaccata dal resto. A livello emotivo non si incastrano con le altre, non creano quella continuità ricercata e necessaria in un racconto ma, al contrario, appaiono come un insieme di scelte avulse dal contesto o, al massimo, grossolanamente “appaccicate” allo stesso. Non solo non aggiungono nulla, ma tirano fuori dal film lo spettatore che continua ad entrarvi e ad uscirvi fino ad annoiarsi. E questo è senza dubbio alcuno l'aspetto peggiore di “This Must Be The Place”.


A rendere, inoltre, per niente interessanti le scene in questione, sono personaggi di contorno incredibilmente insipidi. Dall'intermediatore finanziario, al cacciatore di nazisti, dalla moglie del carnefice alla famiglia ristretta con la quale passa un paio di giorni. Non hanno alcun fascino, alcun ruolo cruciale, non si lasciano ricordare, non si vede l'ora di andare avanti e passare al personaggio successivo, nella speranza che sia più interessante del precedente. Altrettanto insipidi e un po' troppo superficiali i dialoghi con gli stessi; in realtà neanche quelli che vedono protagonista Cheyenne, al netto di un paio di linee divertenti - “Ma che cazzo dici, Mary?” - ma anch'esse assolutamente a sé stanti, sono così sbalorditivi, tutt'altro.

A salvare in parte la pellicola, oltre all'aspetto tecnico, è uno Sean Penn enorme. Riesce nell'impresa di rendere lo smarrimento, la tristezza, il romanticismo e l'infantilismo (nel senso più puro del termine) del personaggio. Scalda il cuore con un paio di espressioni e lega a sé Cheyenne a filo doppio. Menzione particolare per l'espressione finale, così intensa da rischiare di far rivalutare tra cascate di lacrime l'intero film pur dopo essersi palesemente annoiati. La bravura di Penn non oscura, non sarebbe possibile, quella altrettanto convincente della McDormand, attrice pienamente degna di essere definita tale, qui nel ruolo della moglie di Cheyenne. Tende, per l'intera pellicola, ad apparire come una donna forte e ironica, quando però è chiamata a doversi rendere fragile e vulnerabile ci riesce con un'unica frase, regalando allo spettatore tutta l'altra metà del personaggio da lei interpretato (“Ma quando torni?”).


Probabilmente c'è proprio la Mcdormand dietro un altro aspetto caratteristico della pellicola. Quest'ultima, infatti, ricorda neanche troppo vagamente il cinema dei fratelli Coen, a causa delle situazioni e dei personaggi in parte grotteschi in cui si imbatte Cheyenne. E anche nella ricerca di un'ironia altrettanto grottesca, oltreché tipica del loro cinema. Sorrentino però non è un presunto terzo fratello dei Coen e si vede. Al di là infatti della scena in cui un uomo compare vestito da Batman, stupenda, i sorrisi strappati a chi guarda si contano abbondantemente sulle dita di una mano.

La sensazione è che Sorrentino abbia avvertito il peso della sua prima produzione internazionale e abbia puntato sulla creazione di un prodotto tecnicamente molto valido dietro cui ripararsi, scegliendo di non esporsi come generalmente espone i suoi personaggi e nascondendo quel suo modo genuino ed empatico di fare cinema, che rende lo stesso uno dei migliori in circolazione.


2 commenti:

  1. Visto ieri sera.
    Non sono così negativa come te nel giudizio finale, ma in parte sono d'accordo con le motivazioni che hai dato.
    A mio parere, se avessero tagliato un quarto d'ora, il film ne avrebbe guadagnato molto. Ci sono passaggi un po' superflui, qualche dialogo di troppo e qualche personaggio messo lì un po' a caso.
    Molto interessante il discorso che fai sulla "coenizzazione" di Sorrentino, che però non ha la capacità di gestire certi spazi immensi e silenziosi e certi personaggi sopra le righe senza apparire derivativo e un po' banalotto (la scena al bar col tatuatore).
    Credo che la parte più bella del film sia quella iniziale, prima che Cheyenne parta per gli Stati Uniti. Forse l' anima del film è in quel ritratto di vita quotidiana, per quanto atipica.
    E poi ho avvertito sempre il solito problema dell' Europeo quando si trova di fronte alla sterminata America: ti riempie gli occhi fino a farteli esplodere. Troppo e tutto insieme.
    gh,

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  2. @ilgiornodeglizombi

    Si, fino alla partenza il film funziona, su questo sono assolutamente d'accordo. Tuttavia, non credo che 15 minuti in meno potessero fare la differenza, anzi. A mio avviso, è tutta la parte del viaggio che non funziona a livello emotivo (aspetto in quanto tale comunque soggettivo).

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