NYMPHOMANIAC (2013)
Regista: Lars Von Trier
Attori: Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin, Shia LaBeouf, Christian Slater, Uma Thurman
Paese: Denmark/Germany/France/Belgium/UK
Raccontare il senso di vuoto esistenziale e girare una pellicola vuota emotivamente. In linea di massima avrebbe senso. O meglio, in termini di logica avrebbe senso: vuoi ritrarre un'asepsi emotiva, ergo non fai passare emozioni oltre lo schermo. Sì, siamo d'accordo, però c'è un piccolo aspetto da tenere in considerazione, ossia che si sta parlando pur sempre di un prodotto cinematografico. E un prodotto cinematografico dovrebbe in teoria suscitare un certo trasporto, una certa empatia. Dovrebbe, insomma, redendersi interessante per permettere allo spettatore di voler andare avanti con la visione, di godersi, nel bene o nel male, la storia che gli viene raccontata.
Ora, il piccolo Lars con le sue piccole turbe sembra essersene reso conto. Dopo l'orrido "Antichrist", infatti, gira "Melancholia" (seconda pellicola della trilogia ideale sulla depressione. L'ultima è appunto "Nymphomaniac") e capisce che per raccontare il vuoto deve comunque far passare robe dall'altra parte. E così fa. Pur avendo, il suo film apocalittico, più di un punto debole - dagli eccessi che non sa gestire al caricare troppo, fino a spiattellarle in faccia, le sue riflessioni sulla cattiveria umana e sulla depressione, tanto che sembra di leggere la bacheca facebook di un emo di 14 anni - riesce nell'intento di costruirsi un suo fascino, di trasmetterlo, di renderlo pertanto fruibile a chi guarda.
Nello stesso modo, Lars trova il giusto codice per affrontare questa sua ennesima pellicola sul tema. Se in precedenza era stata la dimensione apocalittica in cui aveva immerso storia e protagonisti, questa volta il suo strumento è l'ironia. Un'ironia di cui invero non credevo fosse capace. La inserisce in maniera sapiente nella discussione lunga tutto il film a cui è affidata la narrazione. Smorza i toni e rende una storia grigia un po' meno grigia, o forse inframmezza una storia nera con parentesi di colore, ciò che è importante è che questa scelta sembra funzionare. E' affidata alla dicotomia tra due personaggi apparentemente agli antipodi, una ninfomane dominata dagli istinti, Joe, e un vecchio asessuato che razionalizza ogni minima dinamica, Seligman, dando forma a parentesi singolari che contrastano lo stile registico/narrativo rigido e chirurgico di Von trier. Stesso ruolo hanno le scelte musicali presenti soprattutto nella prima parte (Rammstein e Steppenwolf), ben distanti dalla fisionomia della pellicola. L'eleganza nella costruzione delle scene, quindi, non è più mero esercizio di stile ma si veste di aspetti in grado di darle un senso.
Ci si ritrova a vivere la vita raccontata in prima persona della protagonista, l'epopea sessuale nella quale si lascia andare senza nemmeno cercare appigli. E' interessante seguirla, osservarla, cercare di capire, godendo al tempo stesso delle parentesi grottesche in cui si ritrova di volta in volta (ottima la parte con Uma Thurman). Così fino ad un punto di svolta, che coincide con la chiusura del primo dei due volumi in cui hanno diviso la pellicola della durata di 240 min - cosa che non andrebbe mai fatta, dato che se il regista ha deciso che servono 4 ore per raccontare ciò che vuole raccontare, vuol dire che ne servono 4, da non spezzettare a cazzo, ma i motivi della distribuzione sono in parte comprensibili e ok.
Il punto di svolta è la perdita di una ninfomane del proprio strumento, il suo organo sessuale "smette di funzionare", non sente più nulla. Chiaro, qui la drammaticità per forza di cose deve aumentare, non ci si può più permettere di usare l'ironia come prima. Da qualche parte la storia deve arrivare. Quindi dopo l'ultima parrentesi ironico/grottesca i toni si fanno ancora più cupi, ed è qui che a mio avviso Von Trier inizia a perdersi. Non trova un codice sostitutivo dell'ironia per mantenere alto l'interesse, e la pellicola scivola verso l'asepsi emotiva di cui si scriveva inizialmente. Le successive due ore sono meno un ritratto romanzato e più un elenco di eventi. Ciò che nella prima parte era solo una sensazione, qui si concretizza, e la paura che si risolva tutto in noia prende sempre più forma fino ad arrendersi alla consapevolezza che è ciò che succederà. E di lì a poco infatti succede. Si ha sempre meno voglia di assistere a cosa accade, di capire come e dove andrà a finire. E un attimo dopo, quando Lars si autocita, quando cita nientemeno che "Antichrist" capisci che non c'è più scampo. Di nuovo un maledetto bimbo lasciato libero di andare sul balcone mentre nevica, causa richiami sessuali. A quel punto anche la speranza viene meno.
Quanto narrato dopo, non a caso, non è che un totale deragliamento dal punto di vista, questa volta, prettamente sceneggiaturistico. Il percorso di Joe diviene, volendo usare un eufemismo, poco credibile, per non usare termini come "sciocco" o sinonimi vari. L'ultima parte è un trascinarsi a fatica tra le solite forzature, tra dialoghi deboli e riflessioni a volte semplicistiche a volte ben poco interessanti, tra un capezzolo stimolato e una golden shower che, fumante perché in contrasto col freddo, fa scena (dettagli sessuali che come il resto smettono di essere funzionali). La visione diventa quasi insostenibile e dato che siamo al termine non c'è modo di riprendere il giusto binario. Anche perché se dopo 3 ore e mezza mi propini svolte simili è difficile che tu sappia riaddrizzare il tiro.
E alla fine tutto si chiude, con un evitabile twist ending un po' telefonato e figlio dell'adolescente che c'è in Lars. Si chiude l'ennesimo spreco di un regista che fino ad un certo punto è un signor regista (è sempre il nome dietro quel capolavoro che è "Dogville") e che oltre quel punto lascia le redini alle sue turbe esibizioniste, oltreché forzatamente provocatorie, e perde di vista tutto il resto.