Regista: Iain Forsyth, Jane Pollard
Attori: Nick Cave, Susie Bick, Warren Ellis
Paese: UK
E il settimo giorno, si riposò. Nick Cave invece, nel 20000esimo della sua esitenza, fa un documentario. Su se stesso. Su fittizie 24 ore della sua vita. Una sorta di autobiografia costrutita però su pochi ricordi e tanti pensieri sparsi.
Personalmente l'autobiografia come strumento, se affiancato ad un'artista, tende già di suo a mettermi lievemente a disagio; denota una vanità fuori dal comune, una ostentazione che è negativa per definizione. La stortura sta nell'arroganza di credere di essere interessanti. Un conto è scrivere musica, un conto è provare a scrivere una sceneggiatura piuttosto che un libro, un conto è scrivere un documentario su se stessi. O meglio, un conto è scrivere un documentario su se stessi con le stesse premesse e per le stesse motivazioni alla base di 20.000 Days on Earth. Quest'ultimo, infatti, non ha le sembianze di, non so, un'opera catartica a livello personale, o uno sfogo, né si avverte la necessità di comunicare qualcosa liberandosene attraverso la narrazione. Né sembra essere un documentario classico, che punti magari a svelare retroscena della vita artistica di Nick Cave, motivazioni alla base di un testo specifico piuttosto che di un altro, tasselli che completino il mosaico artistico della carriera del cantante. 20.000 Day on Earth non somiglia nemmeno al più classico dei documentari, basati principalmente su un susseguirsi di brani, rivisitati o meno, tra aneddoti ed esternazioni dell'artista (come il meraviglioso "I'm Your Man" su Leonard Cohen, per intenderci. In cui peraltro c'è anche Nick Cave). La sceneggiatura di quest'opera co-scritta dal cantautore non ha forma, è un po' di tutto e alla fine non è nulla. E il problema, sia chiaro, non è il non avere forma, è che l'informità proposta non ha volume, non ha sostanza, non trasmette, non ha sapore.
Lo stesso Cave ammette durante la pellicola la sua vanità, ricordando che da giovane scrisse un testamento in cui lasciava tutto alla costruzione del Nick Cave Memorial Museum. Va bene, un plauso all'onestà, ma ammettere di essere vanitoso non cancella il problema, tutt'al più lo evidenzia in maniera ulteriore. E nel documentario di cui si scrive la vanità è realmente ingombrante. Tende ad irritare fin da subito, da quando l'artista dice qualcosa tipo "volete sapere come si fa a scrivere un testo?". "Ma anche no", potrebbe rispondere lo spettatore. Il fastidio è proprio lì, nella forma, nel credere che lo spettatore stia pendendo dalle tue labbra, nel dare per scontato che voglia sentire la risposta ad una domanda che tu stesso hai posto e che non ha posto lo spettatore o chi per lui. Segue una risposta più o meno simpatica, anch'essa però palesemente frutto di ostentazione, perché viziata alla base.
Non a caso tutta la restante parte della sceneggiatura tende a trasmettere lo stesso senso di disagio misto a fastidio. Non si avverte una reale genuinità nell'opera, neanche lontanamente. Al contrario il posticcio è sempre dietro l'angolo e proprio questa mancanza di naturalezza nel raccontare e nel raccontarsi fredda l'empatia come solo un cecchino riuscirebbe a fare. Non si riesce a capire dove voglia andare a parare, davvero, è tutto olimpionicamente sconnesso. E quando, inoltre, ci si rende conto di ciò e si cerca di mettersi in un'ottica diversa, per cercare di entrare in sintonia con quanto accade sullo schermo - quando si cerca, nello specifico, di assorbire le riflessioni e i mood del cantante senza aspettarsi alcuna logica narrativa - ancora una volta si resta delusi: le riflessioni proposte non sono così illuminanti, non sono così sentite, non sono interessanti; i dialoghi sembrano troppo costruiti e pretenziosi pur non avendo particolare spessore.
Gli unici momenti in cui qualcosa si smuove all'interno durante la visione sono quelli in cui canta, o in cui si alternano esibizioni live. Momenti in cui quella fotografia classica da documentario entra in simbiosi con il resto e distribuisce dosi standard di empatia, utili ad andare avanti nella visione. A venir fuori sempre più prepotentemente, fotogramma dopo fotogramma, dialogo dopo dialogo, è l'idea, al termine ampiamente confermata, che Nick Cave non abbia assolutamente nulla da dire in questa forma. Come cantautore sì, è una meraviglia, come sceneggiatore anche si è reso interessante ("The Proposition"), ma non a caso sono due linguaggi del tutto differenti da quello scelto ora, perché figli della finzione; finzione in cui evidentemente sa muoversi, e anche bene. Quando si tratta di Nick Cave persona prima che artista, invece, come nel caso di 20.000 Days on Earth, a quanto pare non ha molto da raccontare. O più semplicemente non sa come farlo, ma al di là dei perché e dei percome il risultato resta comunque identico.
Lasciamo che i documentari li facciano altri su di voi, magari, ché a venirne fuori sono sincerità ed coinvolgimento, e se proprio sentite il bisogno di scrivere su voi stessi, che almeno abbiate la cortesia di farlo con una motivazione diversa dall'ostentazione di cui sopra.