giovedì 26 novembre 2015

Marvel's Jessica Jones - Stagione 1


MARVEL'S JESSICA JONES (2015-)




Ideatore
: Melissa Rosenberg

Attori: Krysten Ritter, Mike Colter, Rachael Taylor, David Tennant

Paese: USA



La sigla d'apertura, in un prodotto televisivo, è cosa seria. Non è una robetta simpatica con cui attirare l'attenzione o aggiungere qualcosa prima di cominciare con la narrazione. Né tantomeno un sottofondo ai titoli di testa; è qualcos'altro, ed è sensibilmente più importante. E' parte integrante dello show stesso. Può, da sola, fornirti già il quadro completo di quello che la serie sarà, o che perlomeno vuol essere nelle intenzioni. In termini di atmosfera, in termini di progessione, in termini di toni che assumerà. Ti trascina nella dimensione narrata prima della narrazione stessa e predispone, se riuscita, il risveglio del giusto mood, quello necessario per quel determinato tipo di racconto.
Homeland, per esempio: la sigla d'apertura dice già tutto, con quel suo essere elegante, angosciante e livemente disturbante, claustrofobica ma affascinante. L'intreccio, il volto della serie, infatti, saranno esattamente così, e si è in grado di apprezzarli perché quel minuto, quel minuto e mezzo, ti ha già fatto accomodare là dove devi essere per godere appieno di quanto guarderai di lì a poco. Altro esempio, in questo senso, la sigla della seconda stagione di True Detective: stupenda, trasmette da sola quello che era nelle intenzioni, probabilmente, il True Detective metropolitano che volevano tirar fuori. Se ne avverte la bellezza in potenza senza nemmeno aver cominciato a guardarlo. Poi comincia e le intenzioni restano tali. Paradossalmente ha fatto più la sigla in un minuto che tutta la stagione in 8 puntate. Ma questo è un altro, doloroso, discorso.


Fortuntamente pure "Marvel's Jessica Jones" sembra rendersi conto di ciò e sfodera una sigla fondamentale. Divisa in tre parti ideali, pur durando appena un minuto, parte con toni leggeri, ma sul noir andante: la protagonista è un'investigatrice privata con la sua discreta componente ironica; la battuta c'è sempre, il sorriso sornione anche, ma non significa che le cose non si faranno serie di lì a poco. E infatti succede. Allo stesso modo la sigla cambia volto di colpo e si carica di una progressione assai entusiasmante che apre all'aspetto più incalzante dell'intreccio, più serio e più noir. Questo fino alla parte conclusiva, in cui esplode definitivamente e colora il tutto con l'epicità da supereroe fumettistico che in fin dei conti è Jessica Jones, seppur atipica. Insomma, roba che ci si potrebbe quasi fermare qui, anche se noi non lo faremo.



La sigla, per contruzione, ricorda in maniera palese quella del più giovane di qualche mese "Marvel's Daredevil". Non a caso, ovviamente. La Netflix ha infatti chiuso un accordo con la Marvel Television per quattro serie su quattro personaggi diversi (Daredevil e Jessica Jones, i primi due, seguiti poi da Luke Cage e Iron Fist), che confluiranno, al termine, in The Defenders, una serie che li vedrà combattere il crimine l'uno affianco all'altro. L'intenzione, però, è quella di costruire le quattro serie precedenti come a se stanti, capaci di raccontare la loro storia indipendentemente. E, va detto, sia "Daredevil" sia "Jessica Jones" ci riescono senza sforzi. Il progetto, tuttavia, il c.d. big picture, è sempre lì, e quindi pur essendo del tutto autonome, Netflix e Marvel non rinunciano a richiami, l'una all'altra, e stilistici e di intreccio. Sia Daredevil, sia Jessica Jones vivono ed operano nella stessa città, così come le riprese son state fatte rispettivamente ad Harlem e nel vicino Bronx; questo aspetto si avverte chiaramente, i colori spesso sono gli stessi, la città è la stessa, il respiro è identico, e, bisogna ammettelo, la sensazione che ciò restituisce è stupenda. Già solo con la seconda delle serie Marvel ci si sente parte di una città in cui convivono più eroi, più cattivi, si avverte che da qualche parte, in contemporanea, mentre Jessica sta risolvendo i suoi casini, c'è Daredevil che si sta occupando dei suoi, che le loro strade potrebbero incrociarsi da un momento all'altro (come accade negli ultimissimi episodi, quando si affaccia nel mondo di Jessica un personaggio del mondo di Daredevil). E' un elemento, questo, in potenza molto forte perché si ha così non solo la possibilità di ricreare l'universo dei singoli, come in ogni serie, ma anche l'universo che poi li racchiude, e che dovrebbe, come si scriveva, concretizzarsi in The Defender. Sembra per certi versi quasi un ulteriore passo in avanti della serie tv, un nuovo modo di sperimentare con essa. Se non si fanno passi falsi il tutto si risolverà probabilmente in una gran cosa, per drogati come noi.


A scrivere ciò
, invero, è una persona che non ha mai subito il fascino del supereroe, quasi del tutto ignorante in materia. Cionostante la ricostruzione e degli ambienti e delle luci e delle conseguenti atmosfere riesce a risucchiare chi guarda nel mondo fumettistico con apparente facilità; riuscire a farlo anche con persone che a stento lo conoscono è sintomo di riuscita senza se e senza ma. Il prodotto è valido in sé, non semplicemente come riduzione televisiva, è tecnicamente valido, gestito molto bene, accattivante, mai noioso e restìo a lasciarti tornare alla realtà. Come ogni prodotto dovrebbe fare, del resto.
Ad avere un ruolo chiave, in tutto ciò, forse ad esserne addirittura la colonna portante, è il compromesso gestito in maniera solida e sicura tra l'animo fantastico insito nel genere e il realismo come lo conosciamo. A venirne fuori è un intreccio adulto, maturo, un thriller dalle tinte noir di tutto rispetto; non appare niente affatto posticcio, l'immagine è vera, e pur essendo il tutto immerso nell'ovvia dimensione di gente con poteri e cattivi cattivissimi, al termine si ha la sensazione che Jessica Jones, Luke Cage (già presente qui, seppur in maniera secondaria) e Killgrave possano essere persone che abitano il tuo stesso condominio.


A capo della riuscita del prodotto è la showrunner della serie, Melissa Rosenberg, nome che avrebbe fatto in teoria presagire il peggio, dato che i titoli ai quali aveva lavorato fino ad ora erano stati The O.C., Dexter e Twilight. A quanto pare, invece, con della libertà in più - lei stessa ha dichiarato che questa è stata professionalmente "l'esperienza più liberatoria che abbia mai vissuto" - ha tirato fuori le sue reali capacità e, fortunatamente per noi, ha tirato fuori pure questo "Marvel's Jessica Jones
".
A tenere in piedi la serie sono, inoltre, le intepretazioni, di tutti (forse un po' meno proprio quella dell'attore che interpreta Luke Cage, che sarà quindi protagonista nella prossima serie Marvel/Netflix), ma soprattutto di una Krysten Ritter che praticamente si cuce addosso il personaggio e di un David Tennant che passa da quella macchietta di Doctor Who ad un cattivo, sì ironico a suo modo, ma cattivo sul serio, rendendolo, oltreché credibile, assai carismatico.

E niente, insomma. La Netflix continua a spaccare culi così, a gradire. E noi appezziamo tanto. Oltretutto questa storia di pubblicare in rete tutta la stagione in un sol colpo continua a farmi piangere dalla gioia.




sabato 16 maggio 2015

1992: forse avremmo dovuto fermarci lì


1992 (2015-)




Creatore: Stefano Accorsi, Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo

Attori: Stefano Accorsi, Guido Caprino, Miriam Leone, Tea Falco, 

            Fabrizio Contri, Antonio Gerardi

Paese: Italia



La notizia, qui, è che pur non essendoci Sollima dietro 1992, abbiano tirato fuori un'altra serie degna di nota nel nostro Paese.improvvisamente, di quelle che si può non chiamare fiction - termine che ormai indica uno a caso dei vari prodotti che circolano nella tv italiana, così fastidiosamente simili da non avere nemmeno bisogno della differenziata. Con Romanzo Criminale sembra siano stati settati i livelli sotto i quali non si può scendere se si vuol parlare di prodotto seriale che possa essere preso seriamente in considerazione come tale. Quindi è venuto fuori Gomorra, ed ora a distanza di un anno 1992. Insomma, da non credere nemmeno alla possibilità che in Italia ci potessero essere serie televisive dal respiro internazionale, adesso con esse ci si può quasi riempire le dita di una mano.

Non è proprio una considerazione da nulla, su. Se si tiene conto che ogni Paese per forza di cose non potrebbe, pur volendo, non personalizzare un prodotto, allineandolo ai propri stilemi (se ne parlava già mentre si scriveva di Love/Hate) non può non essere interessante che un "nuovo" Paese proponga la sua visione di una struttura ancora non del tutto sdoganata ovunque (la serie tv, per l'appunto), se non altro in termini di produzione. Sarebbe in ogni caso una cosa mai vista. Infatti quanto accaduto con Romanzo Criminale è stato emblematico: pur con i suoi difetti a venirne fuori è stato un ottimo prodotto che per ambientazioni, fotografia e respiro assai caratteristico (non solo per lo script nato da fatti prettamente interni al Paese) solo noi potevamo produrre - in realtà prima era accaduto già con Boris, che è però una sit-com. Stesso discorso per Gomorra e stesso discorso, ora, per 1992. In quest'ultimo caso, tuttavia, il discorso in specie assume una rilevanza ancor più marcata perché va ad occupare direttamente il primo posto tra gli attori protagonisti della riuscita del prodotto.


1992 non è una serie che ha la sua forza nella sceneggiatura prettamente intesa, né tanto meno nei dialoghi. Non ha nemmeno un fascino estetico superiore ad altri prodotti e, diciamocelo, in più di un'occasione la recitazione lascia parecchio a desiderare, al punto che se il risultato finale non si assesta su livelli definitivi è proprio a causa di cadute di stile davvero un po' troppo ingenue per uno show che per certi altri versi mostra una maturità assai invidiabile, che poi è anche ciò di cui scriverò a breve. Non si capisce se alcune scelte siano conseguenza diretta di indicazioni imposte, fatto sta che alcuni tasselli sfiorano quasi il ridicolo, e dispiace anche solo scriverlo. Guido Caprino nel ruolo del leghista improvvisato è obiettivamente scarso; rende la gran parte delle sequenze di cui è protagonista posticce e impostate, probabilmente anche a causa dell'accento da leghista idiota (come se ci fossero altri tipi di leghisti, starete pensando) che deve riprodurre. Tuttavia, va detto, una parentesi qua e là di recitazione credibile la offre anche, specie nella parte finale della serie. Il vero dramma, qui, è Tea Falco: non si riesce a capire come sia possibile che le abbiano permesso di recitare in quel modo, di settare la voce in quel modo, di presentarsi in generale davanti ad uno schermo in quel modo. Impressionante. Se vogliamo dal punto di vista dell'uso delle espressioni non è troppo inferiore ad altre recitazioni se non altro sufficienti, ma è proprio il percoco in bocca che rende pure il posticcio del Caprino di cui sopra una prova attoriale accettabile. Ogni volta che compare sullo schermo la qualità di 1992 scende di 3-4 livelli per risalire, con fatica, solo allo stacco successivo.

Fortunatamente a compensare, in parte, ci sono discrete sorprese, sempre attoriali. Si comincia con un fantastico Fabrizio Contri nei panni di un Dell'Utri identico all'originale, solo con più stile, e un ottimo Gerardi nei panni di Di Pietro, anche lui graziato stilisticamente; Si continua con Miriam Leone - che dopo Miss Italia si ripresenta al grande pubblico come un'attrice che può assolutamente essere definita tale, capace di dare credibilità al suo personaggio senza sbavature di sorta - e un sorprendente Stefano Accorsi. Già, non solo si comporta bene nel ruolo di Leonardo Notte, ma si comporta egregiamente anche nel ruolo di leading actor, quello che ti trascina la pellicola o la serie, per intenderci. Mostra bravura, convinzione e finanche capacità di creare attorno al proprio personaggio un discreto fascino, sospeso tra lievi rigurgiti di etica e pura voglia di vincere le scommesse che egli stesso si pone davanti.


Non è ciononostante, come si scriveva, di certo parte del comparto recitativo a risollevare da solo le sorti di 1992. L'aspetto, forse l'unico ma a conti fatti più che sufficiente, che riesce nell'intento è una sorta di sensazione che la serie riesce a ricreare e spargere un po' ovunque durante le varie sequenze; l'aspetto che riesce nell'intento, oserei dire, è una sorta di atmosfera pre-apocalittica che serpeggia e semina disagio fino a creare in più di un'occasione genuina inquietudine. Nonostante sia ambientata nell'era di Tangentopoli, quindi nell'era della presunta liberazione dalla corruzione politico/morale in stile Democrazia Cristiana, nonostante racconti la stessa Tangentopoli, l'effetto è in realtà quello diametralmente opposto. Da essere la fine di una stortura diffusa diviene paradossalmente l'inizio di un incubo. Non si capisce se in Italia venga percepito questo intento in maniera più netta perché conosciamo il ventennio berlusconiano, l'ulteriore sfacelo etico/culturale (e non solo) che è seguito immediatamente dopo Tangentopoli, o se la serie riesca, ed è qui l'estrema validità della stessa, nell'intento di insinuare il disastro che di lì a breve sta per abbattersi sul Paese. Preferisco pensare che sia la serie, da sola, che riesce a farlo e in realtà ci sono parecchi elementi che corroborano questa tesi. Fra gli altri l'atmosfera continuamente sospesa del "ciò che sta per accadere", un'atmosfera sufficientemente angosciante da non permettere né di gioire delle "piccole vittorie" del pool di Mani Pulite né di intravedere una qualsivoglia risoluzione positiva all'orizzonte; al contrario, la sensazione è quella di essere risucchiati in una sorta di nulla culturale abitato da omuncoli sinistri, a tratti irreale, (vedi le scene di Notte che guarda la figlia a Non è la Rai) reso meravigliosamente da una colonna sonora assai efficace. Stupenda "Waiting for a miracle" di Leonard Cohen, perfetta "Killer" per la sequenza di Notte in macchina con il fantasma della ex, ma a farla da padrona è, insospettabilmente, "All that she wants" degli Ace of Base e relativo montaggio: sì, perché sono le sequenze, in questo caso, ad accompagnare il brano. Ora, la canzone un suo fascino particolare ce l'ha sempre avuto, ma la capacità di riempirlo dell'atmosfera inquietante di cui si scriveva poco sopra e darle una personalità differente e niente affatto positiva genera il momento forse più potente di tutta la stagione: è come se la serie in quel momento ti stesse ghignando in un orecchio qualcosa tipo "questo è quanto, e continueremo a mandere tutto a puttane. Sarà un disatro, ma sarà divertente. Lasciati andare, vieni con noi".


E in effetti è andato poi tutto a puttane. Noi già lo sapevamo, ma forse non avevamo fatto caso al momento in cui tutto ciò stava nascendo sotto le glorie di Tangentopoli. Questo è l'aspetto che rende la serie senza dubbio riuscita. Se i difetti di cui si scriveva non ci fossero stati avremmo probabilmente avuto un capolavoro. Ancor più angosciante, però.


lunedì 16 marzo 2015

Love/Hate


LOVE/HATE (2010- )



 


Ideatore: Stuart Carolan

Attori:
Tom Vaughan-Lawlor, Killian Scott, Peter Coonan, Aidan Gillen


Paese: IRLANDA


Chiariamo fin da subito che è un caso del tutto fortuito la pubblicazione di una recensione su una serie irlandese a un giorno da San Patrizio. No sul serio, non è una di quelle operazioni becere di marketing, tipo la pubblicità delle armi da fuoco poco prima di una guerra civile o tunnel spazio-temporali poco prima della fine del mondo. Lo so cosa state pensando, lo so: "si sta arrampicando sugli specchi". Davvero, credetemi, non è così. Davvero.
Vi odio.

In ogni caso sì, la serie di cui si scrive è irlandese e la cosa non può che far piacere. Non per San Patrizio ma perché quando un Paese che non è uno dei soliti a farlo, sforna una serie degna di nota si ha sempre qualcosa di diverso da quanto visto in precedenza. Non nel senso di sceneggiature mai lette, è chiaro, ma diverse da un punto di vista fondamentale quale è quello della resa scenica. Per forza di cose un qualsiasi prodotto artistico risente delle proprie radici, anche quando cerca di allontanarsene. I codici estetici, i ritmi narrativi, finanche gli aspetti più tecnici sono figli della cultura a cui appartengono. Love/Hate non si distacca, fortunatamente per noi, da questa sorta di regola non scritta e si presenta al pubblico, nel 2010, con una personalità tutta sua, che ricorda tanti altri prodotti, e televisivi e cinematografici in senso stretto, ma che riesce ciononostante a rendersi fin da subito riconoscibile e restare fedele a se stessa durante tutte le cinque stagioni andate in onda (una sesta è in lavorazione, ma la si potrà vedere solo nel 2016).


La Dublino raccontata da Stuart Carolan, creatore della serie, è quella vista attraverso gli occhi di una banda criminale capace sì di imporsi all'interno della loro porzione di città, per intenderci, ma non abbastanza organizzata e pericolosa al punto di poter non temere le realtà criminali più grosse di loro. Gli occhi attraverso cui viene filtrata la città sono di conseguenza anche quelli di coloro che le ruotano attorno, di amici e famigliari. Il ritratto restituito, come è facile immaginare, è sporco e maleodorante, quello di una Dublino ai margini, alle prese con piccoli furti e spaccio di droga, rivalità e scontri, cadaveri e ritorsioni. Ciò che è davvero interessante, però, è che ad essere sporca e maleodorante è anche la resa scenica. Si è lontani dall'eleganza e dalla finzione che caratterizzano altre serie simili per temi e sviluppo. Qui c'è un realismo assai accentuato, grigio e ben lungi anche solo dalla possibilità di risultare affascinante agli occhi dallo spettatore. Un esempio rende questa differenza alla perfezione, ossia il cofronto tra Sons of Anarchy e Love/Hate: c'è un momento in cui i motociclisti più famosi della tv approdano in quel di Belfast e tutto è bellissimo, dalle distese verdi alle atmosfere, passando per la colonna sonora irlandese e incazzata che li accompagna. Al termine ti ritrovi su una moto in partenza per l'Irlanda con l'unico obiettivo di andare a tirare cazzotti a caso. Poi però vedi l'Irlanda di Love/Hate, ti fermi a metà strada e decidi di tornare indietro senza pensarci due volte. La differenza è qui, come si scriveva qualche riga più su, è nella resa scenica. SOA è l'emblema della finzione cinematografica, questa è tutto l'opposto. Al punto da non essere nemmeno paragonabili in realtà; il confronto tra le due, infatti, aveva l'unico scopo di sottolineare ulteriormente quale sia il tratto distintivo di Love/Hate. Evidentemente Carolan conosce bene la realtà raccontata e non a caso al termine il realismo è l'aspetto che più resta e più si apprezza del suo prodotto televisivo, tanto che alcuni l'hanno definita il The Wire irlandese, anche se dalle vette raggiunte da The Wire siamo in realtà assai distanti.
Questo però non significa che non sia riuscita, anzi, è un crescendo che mostra una discreta abilità nell'individuare i propri limiti, correggersi e maturare. La prima stagione è non a caso la più debole, fa più di un passo falso, compie scelte evitabili (tipo quel cazzo di hip hop nella colonna sonora che stona discretamente e le toglie punti) e non gestisce sempre bene i personaggi. La seconda è già nettamente migliore, dalle musiche alla sceneggiatura e fa ben sperare nel prosieguo. Prosieguo che non delude affatto le aspettative e con la terza si assesta sui livelli definitivi che rendono la serie assai degna di nota. La raggiunta maturità è evidente, e nella gestione dei personaggi e del ritmo, l'identità si completa (e pure quel cazzo di hip hop sparisce, grazie a dio) e la serie va avanti senza intoppi fino all'ultima stagione andata in onda.


Per intenderci ulteriormente sullo stile di Love/Hate, o meglio sul tipo realismo della stessa, siamo lontani da quello di The Shield e vicini a quello di Pusher, trilogia firmata Nicolas Winding Refn. Quel tipo di criminalità, in parole povere, che potresti ritrovarti dietro casa. A partire dagli attori che - tranne Robert Sheehan con la sua faccia da One Tree Hill - sembrano spesso far parte effettivamente di una qualche banda criminale da quartierino. Anzi, uno di loro è sotto processo perché ha interpretato un agente sottocopertura nella serie pur essendo stato di fatto un agente sotto copertura per la polizia irlandese.

E' ormai da 5 anni lontana dai riflettori, forse è il caso di riconoscerle qualche merito dandole un'occhiata, nonostante il titolo sia, diciamocelo, abbastanza bruttino.



venerdì 27 febbraio 2015

Bosch


BOSCH (2014)





Creatori
: Michael Connelly, Eric Overmyer

Attori: Titus Welliver, Jamie Hector, Amy Aquino,  Jason Gedrick


Paese: USA



E' l'era d'oro dei prodotti seriali. Non necessariamente nel senso di qualità, ma di certo in termini di produzione. Del resto è ovvio che ad un aumento della produzione segua un calo percentuale della qualità, è giusto così. Anche perché, diciamocelo, se questa ondata ha portato a True Detective si può sopportare senza problemi anche una grossa manciata di robetta scadente.

Chiunque volge lo sguardo al piccolo schermo ultimamente, e neanche Amazon è riuscita a sottrarsi a questa tendenza. Prende così  il detective Bosch dai romanzi di Connelly e lo traduce in immagini, proponendo l'ennesima serie televisiva a gente come noi, drogata ed irrecuperabile, ad una stadio felicemente terminale.
Apparentemente niente di nuovo questo Bosch, e in realtà niente di nuovo anche in termini effettivi. Nessun particolare lampo di genio, nessun aspetto troppo caratterizzante né distintivo, nessun tecnicismo più degno di nota di altri, niente di troppo potente da offrire allo spettatore. Sarebbe lecito, anzi, chiedersi perché parlarne; è una domanda che si è fatto per primo il sottoscritto, senza però ricevere risposta, quindi facciamo che ne scrivo e vedo cosa ne fuori al termine.


Classica storia di un detective disilluso e con un sacco di cazzi per la testa. Non troppo hard boiled vecchio stampo, né troppo poliziotto da copertina. Troppo poliziotto per essere per essere un detective privato dal sapore hard boiled, ma abbastanza disilluso e cupo da restituire, dell'hard boiled, comunque un certo retrogusto. Si ritrova a gestire un caso che ha lo psicopatico che ti aspetti al centro della stessa, lo psicopatico che anche questa volta decide di avere una connessione col detective di turno, e che anche questa volta con lo stesso cerca e trova un rapporto. Ci sono, come da copione, pure i casini personali, come si accennava, del protagonista. Un processo pendente, una figlia a 4 ore di distanza che vede poco e niente, l'antagonista del dipartimento che gli rompe le palle appena possibile, e, immaginate, c'è pure Lance Reddick a fare il "deputy chief" della situazione. Roba da non sapere dove l'originalità sia di casa.
Ad onor del vero, dopo un paio di puntate stavo per lasciare. Specie dopo l'entrata in scena dell'ennesimo aspetto da copione: la donna più telefonata che si possa immaginare. Non che gli altri personaggi siano questo crogiuolo di complessità e profondità, intendiamoci. Tuttavia, ho deciso di vedere comunque la terza puntata, spegnere tutto e andare a letto. Il giorno successivo la riprendo, più per sport che altro, e dopo 3-4 ore mi ritrovo con la serie conclusa e con 7 puntate di fila alle spalle. Ora, questo non significa affatto che si sia rivelata un capolavoro e che io sia morto dalla gioia, anche perché sto scrivendo. A dirla tutta non è cambiato granché, ma ciononostante questo secondo prodotto della Amazon è scivolato via con una facilità che non riscontravo da tempo. Una facilità tipica di quei prodotti tanto a cervello spento quanto onesti. Quei prodotti non pretenziosi, non fastidiosi nella loro arroganza di proporre il prodotto del secolo presentandosi con qualcosa nemmeno buona per annoiarsi.


Bosch, si scriveva, è un detective come tanti, troppo preso dal suo lavoro senza però rasentare la sociopatia, è il detective che potresti trovarti di fronte un giorno se dovessi uccidere qualcuno. Una sorta di detective della porta accanto, solo un po' più bravo e con un'infanzia un po' meno felice della tua. Non il classico genio della Omicidi, di quelli che hanno un lampo sul cesso e salvano tutti gli Stati Uniti più metà del Giappone, ma più semplicemente quello che ricalca il caso più e più volte e per la legge dei grandi numeri riesce a risolverlo prima di altri. La fruibilità, la semplicità e l'onestà del racconto sono proprio qui. C'è un caso, la gente muore, il serial killer non è figo al punto che vuoi essere un serial killer, così come non lo è il protagonista al punto di voler essere un detective. Non ci sono quei fastidiosi colpi di scena che minano la credibilità, sempre meno rispettata, dell'intreccio, né dialoghi ad effetto che minano, se non usati sapientemente, la credibilità del personaggio (e lo scrive un amante dei dialoghi ad effetto). Invero la resa scenica non è altrettanto realistica, come lo è quella di un The Wire, piuttosto che un The Shield, ma niente di preoccupante, o che in ogni caso possa andare a ledere l'aspetto che rende fruibile la serie, ossia l'aderenza, o quasi, alla realtà.

E' stato finalmente dato un ruolo da protagonista a Titus Welliver, altro punto a favore. Fa il suo, non recita da Dio, ma fa il suo. E se Welliver fa il suo, è sufficiente. Altro punto a favore la sigla d'apertura: non sono riuscito a mandarla avanti nemmeno mezza volta, trasmette da sola, forse più della serie stessa, quell'atmosfera hard boiled e disillusa della metropoli. "Can't let go" di Caught A Ghost: la ascoltate, grazie.


Nulla, quindi. Non è la serie del secolo, non si avvicina nemmeno ad esserlo (ha più di un difetto), non la consiglio con entusiasmo, ve ne parlo e basta, poi fate voi. E' "solo" un'altra storia capitata tra le mani del LAPD, la storia un altro essere umano che ha perso il senno, di un altro detective chiamato a fare il suo lavoro. Una storia come tante, risolta con dell'onesto lavoro investigativo. Come direbbero in una serie poliziesca a caso, da quelle parti:

"Just some good police work".


domenica 7 dicembre 2014

20.000 Days On Earth


20.000 DAYS ON EARTH (2014)





Regista: Iain Forsyth, Jane Pollard

Attori: Nick Cave, Susie Bick, Warren Ellis

Paese:
UK


E il settimo giorno, si riposò. Nick Cave invece, nel 20000esimo della sua esitenza, fa un documentario. Su se stesso. Su fittizie 24 ore della sua vita. Una sorta di autobiografia costrutita però su pochi ricordi e tanti pensieri sparsi.
Personalmente l'autobiografia come strumento, se affiancato ad un'artista, tende già di suo a mettermi lievemente a disagio; denota una vanità fuori dal comune, una ostentazione che è negativa per definizione. La stortura sta nell'arroganza di credere di essere interessanti. Un conto è scrivere musica, un conto è provare a scrivere una sceneggiatura piuttosto che un libro, un conto è scrivere un documentario su se stessi. O meglio, un conto è scrivere un documentario su se stessi con le stesse premesse e per le stesse motivazioni alla base di 20.000 Days on Earth. Quest'ultimo, infatti, non ha le sembianze di, non so, un'opera catartica a livello personale, o uno sfogo, né si avverte la necessità di comunicare qualcosa liberandosene attraverso la narrazione. Né sembra essere un documentario classico, che punti magari a svelare retroscena della vita artistica di Nick Cave, motivazioni alla base di un testo specifico piuttosto che di un altro, tasselli che completino il mosaico artistico della carriera del cantante. 20.000 Day on Earth non somiglia nemmeno al più classico dei documentari, basati principalmente su un susseguirsi di brani, rivisitati o meno, tra aneddoti ed esternazioni dell'artista (come il meraviglioso "I'm Your Man" su Leonard Cohen, per intenderci. In cui peraltro c'è anche Nick Cave). La sceneggiatura di quest'opera co-scritta dal cantautore non ha forma, è un po' di tutto e alla fine non è nulla. E il problema, sia chiaro, non è il non avere forma, è che l'informità proposta non ha volume, non ha sostanza, non trasmette, non ha sapore.


Lo stesso Cave ammette durante la pellicola la sua vanità, ricordando che da giovane scrisse un testamento in cui lasciava tutto alla costruzione del Nick Cave Memorial Museum. Va bene, un plauso all'onestà, ma ammettere di essere vanitoso non cancella il problema, tutt'al più lo evidenzia in maniera ulteriore. E nel documentario di cui si scrive la vanità è realmente ingombrante. Tende ad irritare fin da subito, da quando l'artista dice qualcosa tipo "volete sapere come si fa a scrivere un testo?". "Ma anche no", potrebbe rispondere lo spettatore. Il fastidio è proprio lì, nella forma, nel credere che lo spettatore stia pendendo dalle tue labbra, nel dare per scontato che voglia sentire la risposta ad una domanda che tu stesso hai posto e che non ha posto lo spettatore o chi per lui. Segue una risposta più o meno simpatica, anch'essa però palesemente frutto di ostentazione, perché viziata alla base.
Non a caso tutta la restante parte della sceneggiatura tende a trasmettere lo stesso senso di disagio misto a fastidio. Non si avverte una reale genuinità nell'opera, neanche lontanamente. Al contrario il posticcio è sempre dietro l'angolo e proprio questa mancanza di naturalezza nel raccontare e nel raccontarsi fredda l'empatia come solo un cecchino riuscirebbe a fare. Non si riesce a capire dove voglia andare a parare, davvero, è tutto olimpionicamente sconnesso. E quando, inoltre, ci si rende conto di ciò e si cerca di mettersi in un'ottica diversa, per cercare di entrare in sintonia con quanto accade sullo schermo - quando si cerca, nello specifico, di assorbire le riflessioni e i mood del cantante senza aspettarsi alcuna logica narrativa - ancora una volta si resta delusi: le riflessioni proposte non sono così illuminanti, non sono così sentite, non sono interessanti; i dialoghi sembrano troppo costruiti e pretenziosi pur non avendo particolare spessore.


Gli unici momenti in cui qualcosa si smuove all'interno durante la visione sono quelli in cui canta, o in cui si alternano esibizioni live. Momenti in cui quella fotografia classica da documentario entra in simbiosi con il resto e distribuisce dosi standard di empatia, utili ad andare avanti nella visione. A venir fuori sempre più prepotentemente, fotogramma dopo fotogramma, dialogo dopo dialogo, è l'idea, al termine ampiamente confermata, che Nick Cave non abbia assolutamente nulla da dire in questa forma. Come cantautore sì, è una meraviglia, come sceneggiatore anche si è reso interessante ("The Proposition"), ma non a caso sono due linguaggi del tutto differenti da quello scelto ora, perché figli della finzione; finzione in cui evidentemente sa muoversi, e anche bene. Quando si tratta di Nick Cave persona prima che artista, invece, come nel caso di 20.000 Days on Earth, a quanto pare non ha molto da raccontare. O più semplicemente non sa come farlo, ma al di là dei perché e dei percome il risultato resta comunque identico.


Lasciamo che i documentari li facciano altri su di voi, magari, ché a venirne fuori sono sincerità ed coinvolgimento, e se proprio sentite il bisogno di scrivere su voi stessi, che almeno abbiate la cortesia di farlo con una motivazione diversa dall'ostentazione di cui sopra.


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